Abbiamo problemi con la gente.
By Claudio Giuliani Posted in monografie on 5 Marzo 2021 6 min read
Quando entrerà in campo, l’isteria collettiva si diffonderà con RT pari a un miliardo. Sarà come al solito, come se non fosse mai andato via, uguale alle altre, come sempre. Perché non è che questa volta, a più di un anno dall’ultimo match, quella semifinale a Melbourne contro Djokovic persa per stanchezza, sarà diverso: quando Roger Federer uscirà dal tunnel attirando a sé le luci dei riflettori, perché accadrà di sera così tutto il mondo potrà esserci, il pubblico sarà posseduto, perderà il controllo ammaliato dalla guida di questo principe alto e fiero capace di generare un moto irrazionale fra il pubblico, dal divano come dalle tribune.
Questo stato di euforia collettiva durerà il tempo della partita, la liturgia. Perché di questo si tratta, di una messa sportiva in cui è lui a impartire i sacramenti sotto forma di colpi, e il pubblico lì ad alzarsi, gioire, disperarsi, sedersi, inginocchiarsi, piangendo finanche, promettendo di non guardarlo più giocare in caso di sconfitta per non soffrire troppo, come quella volta dopo la finale di Wimbledon 2019. Bugie, perché alla fine questo amore richiama sempre e non finirà neanche quando Roger smetterà di giocare. Ma per ora non è tempo di pensare alla fine di questa storia perché tornare a giocare un’altra volta allontana quel momento drammatico che un giorno arriverà con qualsiasi scusa, che non è mai ora di farlo, che adesso non è il momento, che forse ancora c’è qualcosa da fare nel tennis, e poi: hai visto come stanno messi gli altri?
Sono anni oramai che siamo preparati, perché lui era finito nel 2016, così si udiva da tutte le parti, poi il ritorno, le aspettative basse, il miracolo, due Slam in quell’incredibile 2017 con Miami e Indian Wells dominati come da giovane, e quel 2018 iniziato con un altro anno sulle spalle e con un altro Slam da campione. Nessuno pensava al ritiro, era un pensiero lontano, una musica che si udiva bassissima sullo sfondo di applausi e incitamenti ad ogni sua partita, ogni volta un’esperienza uguale alle altre ma insieme unica, perché non serve la forza dei numeri per sapere che è lui è il campione fra i campioni, l’eletto fra i vincitori. I suoi fan, gli amanti dello sport in generale, il pubblico del tennis tutto, hanno da tempo deciso che è così, perché quando gioca lui, il tennis è semplicemente diverso.
E insomma Roger dopo mesi passati a cercare la migliore condizione fisica e tennistica ha deciso di rimettersi in gioco ancora una volta, nell’anno in cui compirà 40 anni. Fa venire i brividi solamente a scriverlo, figuriamoci a sentirsele addosso, tutte quelle primavere, anzi, tutti quegli autunni. Vero che la longevità dei campioni cresce sempre di più, vincere Slam dopo i trenta è una cosa alla quale non facciamo neanche caso, ma giocare a quarant’anni? Quanto può far paura?
Immaginate di essere Roger, di non giocare una partita da un anno: avreste voglia di confrontarvi con un corridore poco più che ventenne come de Minaur? Manterreste la calma nel capire dove finirebbero i servizi di Berrettini o vedere se nella diagonale di dritto Rublev è veramente il migliore?
Ma allora, perché farlo?
A noi non possono restare che le ipotesi. Il campo è probabilmente il luogo dove Roger si sente più vivo. Tutti abbiamo un posto, qualcosa, che fa da innesco alle emozioni. Per i tifosi può essere quando il loro idolo entra in campo, per Federer è quando sceglie di testare i suoi limiti, e questo può accadere solo in un torneo. E poi, Roger lo farà per noi.
E noi stiamo tranquilli, vedrete che andrà come al solito. Lui sentirà i brividi nel corridoio buio in attesa che lo speaker finisca il lungo elenco dei titoli per chiamarlo in campo, poi sarà l’ora della camminata con il braccio alzato verso il centro del campo, del tripudio del pubblico come quando salgono sul palco gli headliner di un concerto rock, del trepidante sguardo sul suo volto, dell’emozione per il suo sorriso che tradisce imbarazzo, per la sua mano che ci saluta. E finalmente il prete potrà iniziare la celebrazione.
Che dobbiamo aspettarci? Ci sono domande che valgono più di una risposta: è davvero così importante? Lo sa anche Roger che rimarrà un giocatore competitivo finché avrà una forma fisica decente, perché il braccio farà le solite cose anche se le gambe faranno meno, e vedrete che basterà come sempre. E se non basterà magari inventerà qualcos’altro, perché lui può farlo, perché Federer progetta cose nella sua mente e poi le realizza, un po’ come i lanci di prima di Totti o i cambi di campo di Pirlo, gesti senza tempo che possono farsi anche da fermi, circondati da mediani che corrono ringhiosi, i corridori e picchiatori senza fantasia del tennis di oggi.
Non guardiamo con apprensione cosa farà Federer, pensiamo a cosa faremo noi. Vogliamo ancora una volta vederlo affrontare Rafa per un’ultima sfida? Siamo curiosi di capire se potrà ancora reggere tre ore contro Djokovic? Davvero abbiamo bisogno di vederlo giocare contro i vari Evans, Ruud, Coric, Cilic e Pella per vedere se può ancora batterli? Ci basterà vederlo alzare le braccia un’ultima volta dopo una vittoria, contro chicchessia, almeno un’ultima volta?
Oppure ci accontenteremo di vivere quei piccoli attimi di gioia che proviamo quando lo vedremo inventare un nuovo colpo o riproporne uno classico, quando giocherà un passante di solo polso, quando cambierà la velocità della pallina con la naturalezza di chi è nato per fare quello, quando completerà un serve and volley con la solita perfezione stilistica? Oggi diciamo di sì, ma quando inizierà a giocare, questo non ci basterà più. Vorremo di più, desidereremo sempre una messa più lunga. Saremo egoisti consapevoli, perché sappiamo che chiederemo a Roger più di quello che ci può dare. E soprattutto lo faremo dopo tutto quello che ci ha dato.
Salutiamolo, osanniamolo, tifiamolo, aspettiamo le sue partite, guardiamole e viviamole come se ognuna fosse l’ultima, sorridiamo ed emozioniamoci con lui, immaginiamo di essere in prima fila al concerto degli Iron Maiden nel loro ultimo Tour. Perdoniamo le imperfezioni negli assoli, i capelli bianchi del chitarrista, i chili di troppo del batterista, lasciamo che nella testa entrino solo le note di quelle canzoni, i ricordi legati a quella grande band che emozionerà anche in queste condizioni, perché quella musica non cambia.
Quelle note, quei colpi, quelle canzoni, quelle vittorie, nessuno potrà mai togliercele. Quelle note, quei colpi, quelle canzoni, quelle vittorie, siamo noi.