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Giocagli sul rovescio

In periferia per scoprire le differenze con i giocatori veri. Ma ce ne sono?

In periferia per scoprire le differenze con i giocatori veri. Ma ce ne sono?

Quando alzo la pallina in aria per eseguire il servizio, il sole non mi è mai sembrato così vicino. Sfruttando il riverbero della terra rossa, picchia più forte del solito e non può fare a meno di incrociare i miei occhi. Per un attimo quasi si confonde con la pallina che ho appena lanciato e non vedo più. Devo quindi scommettere sul tempo che impiegherà la pallina per ritornare visibile e contemporaneamente iniziare il movimento con la racchetta cercando di indovinare l’attimo dell’impatto. L’operazione riesce e in qualche modo la pallina va «di là». Per fortuna il mio avversario, provato dal caldo almeno quanto me, si esibisce in una goffa risposta che termina a metà della rete. È l’ultimo punto del primo set. Sono felice, non tanto perché l’ho vinto 6-3, ma perché è finito. Finalmente, posso chiedere al mio avversario il permesso di andare in bagno per rinfrescarmi e recuperare le energie.

Sono da poco passate le tre del pomeriggio. A questi orari e con le temperature che Roma sa raggiungere ad agosto, iscriversi a un torneo di tennis può sembrare una scelta folle, che la noia e la passione per questo gioco forse non bastano a giustificare. Proprio perché non devo giustificazioni a nessuno, io ho scelto di farne due, di tornei, contemporaneamente. È il motivo per cui sono in campo così presto: questa sera, alle 22, ho un’altra partita, dall’altra parte di Roma. Se sono impegnato in due tornei amatoriali di tennis invece che nella scelta della casa più vicina alla spiaggia tra quelle disponibili su Airbnb — come tutti i ragazzi della mia età in questo periodo dell’anno — è anche per colpa di alcuni eventi di cui non sono responsabile.

Primo: i tornei iniziavano in due date diverse, ma quello che doveva cominciare prima aveva anche un numero di iscritti maggiore e ha finito per accavallarsi con l’altro. Il secondo motivo — e qui forse entriamo nel campo delle aggravanti — è che in questo 2020 avevo vinto la miseria di due partite. Senza vittorie non posso conquistare i punti che mi servono per migliorare la mia classifica: se non cogliete la portata di un simile fallimento, avete evidentemente ambizioni più solide — o una classifica migliore della mia. Terzo: se escludiamo un appuntamento dal notaio di cui mi aveva accennato mia madre — e che il mio cervello aveva subito spostato nella posta indesiderata — i miei programmi per l’estate coincidevano per numero con gli spettatori della mia prima partita: zero. Mi sarei dedicato esclusivamente al tennis, come un vero professionista.

Entro nello spogliatoio e mi butto sotto la doccia con tutti i vestiti e le scarpe da tennis. Poi esco per affrontare il secondo set. Riprendo a giocare nell’unico modo in cui sono capace, cioè picchiando col servizio e con il dritto ogni pallina che mi capita nei paraggi. Cerco in ogni modo di non dover giocare il rovescio. Se proprio mi tirano lì, mi sposto per giocare comunque di dritto oppure, se non faccio in tempo, gioco in slice. Appena ho l’occasione mi avvicino alla rete per chiudere il punto con una volée. Si direbbe che ho un tipo di gioco offensivo, d’attacco. La verità è che sono impaziente. Ho fretta di sapere come andrà a finire il punto che sto giocando. Ogni tennista riflette aspetti del proprio carattere nel modo di giocare. È la teoria di John McPhee, celebre giornalista del New Yorker e autore del libro che sto leggendo, intitolato, con icastica semplicità, Tennis: «Nel tennis», scrive, «i meccanismi motori traducono la storia personale e il carattere in colpi e caratteristiche di gioco. Un metodico tenderà a giocare in modo metodico, mentre chi ha estro nella vita lo tirerà fuori anche in campo». Più che estroso, io sono soltanto poco allenato e di conseguenza stanco. Sono sempre più affaticato del mio avversario anche quando questo ha il doppio della mia età, come oggi. Gioco d’attacco per abbreviare l’agonia, la stessa ragione per cui Pantani andava forte in salita.

C’è un altro motivo per cui vado di fretta. Quell’appuntamento dal notaio che il mio cervello si era sbrigato ad archiviare è capitato nel giorno più sbagliato. Cascasse il mondo, alle 18 devo essere a viale Libia. Non solo devo vincere, devo anche farlo in fretta. Non è una giornata come le altre, ma pagherei perché fossero tutte così. Mi sono svegliato con l’entusiasmo dell’ultimo giorno di scuola. La mattina mi sono messo davanti al libro di diritto penale, l’esame che devo dare a settembre, cercando di non pensare al tennis almeno per un po’. Tempo mezz’ora ed ero già con l’evidenziatore arancione in mano, lo stesso colore del grip della mia racchetta, a far finta di giocare contro il muro della mia camera. Ma quando a metà del primo set realizzo che non c’è uno spicchio d’ombra su tutto il campo, la racchetta mi scivola dalle mani e l’acqua che mi sono portato è già calda. Comincio a chiedermi: che ci faccio qui? Perché non sono al Circeo o in Sardegna come tutti i ventenni normali?

Il mio avversario gioca in un modo opposto al mio. Non ha fretta, si limita a restituire ogni mio colpo aspettando che sia io a decidere le sorti del punto, con un errore o un colpo vincente. Ha una classifica molto inferiore alla mia. Se è arrivato a questo punto del torneo è anche perché ieri ha vinto senza giocare. Il suo avversario non si era presentato perché — mi spiega il giudice arbitro — sta facendo tre tornei contemporaneamente. C’è qualcuno più esaltato di me, penso. «Mi ero pure preso il permesso al lavoro», mi dice durante un cambio di campo. «Ma quello niente, manco una telefonata». Mi dispiace, ma ho altro a cui pensare. Grazie alla specie di doccia che mi sono concesso all’intervallo, non sento più la stanchezza e arrivo meglio sulla palla. In poco più di mezz’ora vinco di nuovo 6-3. In barba al regolamento anti-Covid, io e il mio avversario ci stringiamo la mano. Controllo l’ora. Ho finito presto, ma non abbastanza per andare a prendere mia madre. Con due macchine diverse, andiamo nello stesso posto: lo studio del notaio.

Vengo informato che l’atto per cui sono stato convocato mi riguarda personalmente. Dobbiamo siglare il contratto preliminare dell’immobile che mi è stato intestato e che a quanto pare abbiamo deciso di vendere. Il notaio inizia a leggere il compromesso. Ascolto parole che ho letto mille volte nei libri di diritto, ma ugualmente non seguo il filo del discorso. Perché mia madre annuisce e io non capisco nulla? Eppure studio proprio questa roba. Cerco di stare attento ma la mia mente è già altrove, precisamente alla marca di palline con cui mi faranno giocare questa sera. Quale sarà? E il campo farà schifo come quello di oggi pomeriggio o ci sarà un po’ più di terra? Mi chiedo che ruolo dovrei attribuire a questa mia passione a tratti autistica. È una parte del me bambino che è sopravvissuta e che è bello che io conservi o dovrei attivarmi per cercare altre forme di realizzazione, magari socialmente più appaganti? Non faccio in tempo a rispondermi ché vengo gentilmente invitato a tornare sulla Terra. Firmo dove mi chiedono di firmare e finalmente scappo.

Una volta a casa, ho il tempo per un piatto di pasta e per svuotare e poi di nuovo riempire la borsa. Ne approfitto per farmi decriptare da mia madre quanto appena successo dal notaio. Mi lavo al volo i denti e sono di nuovo sul Raccordo, direzione via della Pisana. Ho un po’ di sonno e sento già i primi dolori alla schiena. Poi però arrivo al circolo e sono da poco passate le dieci di sera, ci saranno 25 gradi, le palle sono nuove e ci mettono addirittura sul campo 1, quello con la tribunetta da cui alcuni soci guarderanno la nostra partita. In questo momento, penso, non c’è un posto al mondo in cui vorrei essere diverso da un campo da tennis.

Per la prima volta in vita mia, sto giocando con gli occhiali da vista. Non è il massimo come outfit, ma mi sono accorto che di sera non ci vedo più. E di certo non posso fare le prime prove con le lenti a contatto in un’occasione importante come questa. Il torneo che si gioca a via della Pisana è un torneo a cui possono partecipare solo i giocatori di quarta categoria. Io, che sono classificato 4.1, sono quindi uno di quelli che ha la classifica più alta tra i partecipanti. Potrei essere considerato uno dei favoriti del torneo, se fossero presenti delle agenzie di scommesse e dei dibattiti tra esperti — sorprendentemente mancano entrambi. La stanchezza è sparita subito. Mi muovo alla grande, metto sempre la prima in campo e l’avversario non mi fa quasi mai giocare il rovescio. In poco più di un’ora chiudo con un 6/2 6/3. Il mio avversario mi fa i complimenti. Si stupisce che abbia questa classifica, sostiene che il mio servizio e il mio dritto siano da terza categoria. Mi schermisco, ma dentro di me sono felicissimo. In macchina metto la radio a palla e prima di rientrare mi concedo un gelato per festeggiare. Quando arrivo a casa, mia madre è ancora sveglia. La informo che ho vinto, anche se non me l’ha chiesto.

Il giorno dopo per fortuna devo giocare solo una partita. I postumi del doppio impegno mi fanno svegliare dopo le 11. Faccio un po’ di stretching, mangio un boccone e alle 16 sono di nuovo in campo. È venuto a vedermi un mio amico, quindi non posso fare brutte figure. Il mio avversario è più alto di me e ha il doppio dei miei muscoli. Quando mi dice che ha solo 15 anni gli chiedo se è uno scherzo. È classificato 3.5. Il mio avversario del giorno prima era un 4.4. Per dare l’idea, è come guardare la prima puntata di una serie e poi passare direttamente alla sesta stagione. All’inizio, infatti, non ci capisco niente, ma poi prendo le misure. Il finto quindicenne non si limita a restituirmi i colpi: per fare un vincente devo essere molto più preciso di ieri e se gioco troppo corto è lui a tentare di chiudere il punto. Per i primi nove giochi teniamo entrambi i nostri turni di servizio. Ma sul 5–4 in mio favore commette due doppi falli che mi aiutano a conquistare il break. Vinco il primo set 6-4.

Il mio amico mi sorride e stringe il pugno in segno di incitamento. Chissà se si sta annoiando o se il livello del nostro tennis è in linea con le sue aspettative. Mentre la gioco, non mi sembra una brutta partita. Sarà uguale da fuori? Mentre mi perdo in questi soliloqui, sono già sotto 3–0. Riesco a recuperare fino a 3 pari e da lì in poi nessuno terrà più il suo servizio, il contrario del primo set. Sul 6–5 per lui ho l’ultima opportunità per evitare il long tiebreak finale, che in molti tornei amatoriali sostituisce il terzo set. Commette un doppio fallo, ma io sbaglio la risposta sul punto successivo. 15 pari. Il mio avversario serve una prima a uscire. Io rispondo bloccando la racchetta e sfruttando la potenza del suo servizio. Lui si sposta sul dritto e con un colpo che sfiora la rete mira al mio rovescio. Io scelgo di giocare di taglio e rimando la pallina esattamente da dove era partita. Lui si trova fuori posizione. Ha due scelte. Tentare di nuovo un vincente di dritto, con il rischio di lasciare scoperta una buona metà del campo, oppure giocare un rovescio interlocutorio e ricominciare lo scambio. Opta per la seconda opzione, ma il suo rovescio è troppo corto. Entro con i piedi dentro al campo e tiro un dritto lungo linea che lo prende in contropiede. 15–30. Sul servizio successivo accuso lo sforzo per il punto precedente e sbaglio un’altra risposta. 30 pari. Se fa altri due punti ho perso il secondo set. Al termine di un altro scambio tirato mi conquisto una palla break. Sul 30–40, tradito dalla paura, il mio avversario commette un altro doppio fallo. Si va al tiebreak. Perdo il primo punto ma poi ne vinco sette consecutivi. È finita. Ho vinto 6-4 7-6. Ho battuto un 3.5 e ho guadagnato altri 90 punti buoni per la classifica.

Al termine della partita vado a salutare il mio amico. Mi fa i complimenti e mi assicura di non essersi annoiato. Restiamo a guardare un po’ delle altre partite del torneo. Commento con lui i colpi di alcuni giocatori, lo invito a prestare attenzione su alcuni particolari e gli illustro i meccanismi che regolano la classifica. Non sono più tanto sicuro che non si stia annoiando perciò la smetto. Dopo un po’ mi saluta. Faccio la doccia e vado anch’io, rispondo. Ma in realtà non è vero. Resto lì a vedere le partite e le vedo tutte, fino all’ultimo match point della giornata. Le guardo e allo stesso tempo osservo i loro protagonisti, gli abitanti di questo microcosmo di cui anch’io faccio parte, quello degli abbastanza bravi. Sono i tennisti di terza categoria, qualcosa in più che dei semplici amatori ma anche qualcosa in meno che dei veri atleti e di certo molto meno che dei professionisti. Gente che parla e litiga con sé stessa, che studia le tattiche più sofisticate per innervosire l’avversario, che coinvolge la fidanzata o i parenti in questo sport che dovrebbe rappresentare solo un passatempo, ma non ditelo a loro.

Osservo loro e contemporaneamente osservo anche me. Mi chiedo a cosa serva il tempo che spendo dietro al tennis, se il fatto che mi diverto basti per sentirmi risarcito. Se il tennis non mi darà da vivere, ha senso dedicargli tutto questo spazio? Il mio buon umore sarà per sempre condizionato dai miei risultati sportivi o questa è solo una fase della mia vita? Fino a che età è lecito fantasticare per giorni su un colpo che mi è riuscito particolarmente bene?

Mi sorprendo a fare le stesse riflessioni di Nick Hornby in Febbre a 90’, a soffermarmi su quanto sia crudele accorgersi che le nostre passioni non abbiano diritto di cittadinanza al di fuori delle nostre fantasie. Scrive Hornby: «Con lo sport non puoi sognare come puoi fare se scrivi, se reciti, se dipingi o se fai carriera come dirigente: l’ho capito a undici anni che non avrei mai giocato per l’Arsenal. Undici anni sono davvero pochi per scoprire una così amara verità». Come Hornby, però, sono convinto che non siano necessari un pubblico o uno stipendio fisso per essere uno sportivo professionista. Basta imitare i riti e le smorfie degli atleti che vedo in televisione e unirli con una giusta dose di attenuanti, quanto basta per convincersi che la differenza tra me e loro si riduca in realtà a due o tre dettagli. Per credere, cioè, che se non fosse per gli occhiali (ma dopotutto, guardate Tipsarevic), per un rovescio assai meno incisivo del dritto (ma era lo stesso problema di Sampras, che così ha vinto 14 slam), per la scarsa etica del lavoro (Kyrgios?), se non fosse, insomma, per tutti questi aspetti marginali, anch’io sembrerei a tutti gli effetti un giocatore vero.

Articolo di Luca Capponi


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