Abbiamo problemi con la gente.
By Claudio Giuliani Posted in recap on 3 Febbraio 2020 10 min read
Nella risoluzione del problema Australian Open, e cioè determinare il vincitore al termine di 127 partite fra 128 giocatori, alla fine la soluzione è spesso la più semplice: vince Djokovic. Con otto vittorie, Novak raggiunge il numero 17 negli Slam vinti: Nadal e Federer ora distano rispettivamente solo 2 e 3 tornei maggiori. Che Novak Djokovic arrivi a pareggiare il conto degli Slam dei due suoi rivali è meramente una questione di tempo. Che quello fosse il suo obiettivo primario lo sapevamo già ma ora c’è l’ufficialità per sua stessa ammissiome: “È il mio obiettivo, voglio diventare il migliore, è per questo che gioco ancora così tanto”.
La formula della soluzione alternativa ai Djokovic, Nadal e Federer non è stata ancora trovata da quei giocatori che aspirano alla loro prima vittoria in uno Slam. La costanza dei tre dominatori è tale che riesce a ammantare di incertezza anche le più robuste convinzioni di chi aspira a batterli. Quel che è successo a Medvedev una volta e a Thiem già tre volte servirà per presentarsi di nuovo all’ultima partita di uno Slam ma con un bagaglio di sicurezza maggiore. E forse a vincere, prima o poi.
Non c’è altra via, oltre al tempo, che quella di migliorare mentalmente e imparare a gestire le situazioni che una finale Slam inevitabilmente presenta. Un Thiem perfetto può risultare vincente contro Nadal dopo una partita durissima ma non riesce a battere un Djokovic peraltro deficitario per almeno metà della partita.
Thiem è partito male, ci ha messo un po’ per scrollarsi di dosso la tensione. Ma regalare mezz’ora a Djokovic significa ritrovarsi un set sotto, anche se l’austriaco è riuscito a risalire da 1-4 a 4-4, per poi accusare un passaggio a vuoto. Un Djokovic che pure non ha particolarmente brillato è riuscito a ritrovarsi in vantaggio di un set solo perché ha giocato bene i momenti chiave, complice anche qualche incertezza dell’austriaco.
Quando Thiem è finalmente diventato consapevole di dover guidare lui le danze della finale, pena l’ennesima e rapida sconfitta, il confronto è diventato tale. Thiem è andato in vantaggio di un break ma, di nuovo, non è riuscito a conservare il vantaggio. Ha avuto bisogno dell’aiuto dell’arbitro, severo nel dare due warning per time violation in due punti consecutivi, quando Djokovic era sotto 4-5. Con il conto dei set pareggiati, Thiem ha acquisito sicurezza mentre Djokovic è andato in confusione. Il serbo giocava come se non gliene importasse nulla del match, i colpi filavano via addirittura meglio, a braccio sciolto, ma non c’era criterio dietro le sue scelte. Thiem era rapido e determinato a chiudere rapidamente il set e si ritrovava ad un parziale di distanza dalla sua prima vittoria Slam. Nelle due precedenti finali perse, Thiem non era andato mai così vicino al successo.
Novak allora si è seduto delicatamente nel suo angolo. Cosa ha attraversato la mente di un sedici volte campione Slam durante quel momento?
Deve aver pensato che di fronte non aveva né Federer né Nadal, uno di quei due che probabilmente gli avrebbe inflitto l’estrema unzione di lì a breve. Guardando oltre l’arbitro c’era Thiem, uno di quei ragazzi sempre in procinto di farcela ma ancora sprovvisto del quid necessario. Fosse stato Djokovic uno normale, Thiem starebbe qui a festeggiare il suo primo Slam. Ma Djokovic fa parte dell’élite, dell’oligarchia al comando.
Si era già trovato in quelle situazioni, Novak, e avrà pensato che vincere due set contro Thiem, un giocatore sì bravo ma che non gli crea molti grattacapi durante il gioco e che, sul cemento, l’aveva battuto una sola volta, alle ATP Finals 2019 ma solo al tiebreak del terzo set, non doveva essere poi impresa così difficile. Dev’essersi ricordato che, fin lì, non aveva mai avuto match impegnativi ma che, in passato, tante volte era riuscito a uscire vincitore da situazioni ben più difficili. Rimontare uno svantaggio a Thiem non poteva fargli paura. Fosse stato poi un match al meglio dei tre set avrebbe già perso, ma quanto gliene sarebbe importato? Il match in corso era una partita negli Slam, una finale, e l’avversario non era neanche uno degli altri due, un’occasione troppo ghiotta per non coglierla.
E quindi, con la consapevolezza che un altro warning gli sarebbe costato un punto, Novak si è risettato in modalità zen: l’ultima volta che l’aveva fatto era stato a Wimbledon 2019, quando i “Ro-ger Ro-ger” del pubblico venivano codificati nella sua mente come “No-vak No-vak”, un escamotage che lo ha isolato da tutto quello che non fosse Federer e la pallina. Gli occhi famelici di Djokovic nel quarto set hanno sùbito fatto capire a Thiem che no, vincere uno Slam non poteva essere così facile. Vincere il quarto set e arrivare alla salvifica spiaggia del quinto era pura routine per Novak.
Sembrava impossibile pensare che il Djokovic fosse lo stesso giocatore dato per disperso qualche ora prima nella stessa partita. E dire che quella che era in campo contro Thiem non era neanche la migliore versione del serbo. Non era il giocatore che nella finale 2019 contro Nadal aveva commesso solo 9 errori gratuiti in tre set. Quello che stava giocando per lo Slam numero 17 era un Djokovic ordinario, che saliva e scendeva nelle percentuali al servizio, che alternava vincenti imprendibili a errori di metri, e che però sapeva sorprendere l’avversario scendendo a rete e facendo punto seguendo la seconda palla al servizio.
Seppur in maniera differente, Medvedev a New York e Thiem a Melbourne si sono ritrovati ad un solo set di distanza dal grande traguardo ed entrambi sono stati sconfitti da mani diverse che hanno usato però la stessa arma: la consapevolezza.
I tre che vincono Slam ininterrottamente dalla vittoria di Wawrinka agli US Open 2016 hanno dimostrato ancora una volta di saper gestire i momenti di calo, le esuberanze dell’avversario, di saper riordinare le idee, di essere capaci di insinuare dubbi nella mente dell’avversario e di trovare i trucchi per invertire l’inerzia della partita. Chi forte della sua classe e dell’infinito e onnipresente sostegno del pubblico, Federer, chi grazie alla sicurezza che deriva dalla superficie su cui gioca, Nadal, e chi grazie alla sua forza interiore, capace ogni volta di convertire in energia positiva la rabbia e l’invidia di giocare sempre contro il pubblico e di non essere acclamato come i primi due, il figlio di un dio minore Novak Djokovic.
Se gioca Federer si tifa per lui, se gioca Nadal e non c’è Federer si tifa per lo spagnolo. Ma se gioca Djokovic si tifa comunque per l’avversario. Djokovic nel corso degli anni ha imparato a trasformare questa sofferenza in energia. Riesce indistintamente a giocare partite con un linguaggio del corpo che tradisce furore e rabbia ad altre in cui, come contro Thiem ieri nella parte finale, riesce stare concentrato solo sul singolo punto, non lasciando trasparire nessuna emozione all’esterno.
A modo loro, questi tre giocatori riescono a trovare una strada, quello che gli altri oggi non sanno e non riescono a fare. E quindi per batterli, se non giocano fra di loro, serve la prestazione perfetta. A New York 2019 serviva che Medvedev non perdesse uno dei primi due set nella finale, a Melbourne Thiem non doveva calare negli ultimi due set. Anche uno come Murray, per vincere il suo primo Slam contro uno di questi tre ha dovuto pagare il dazio di perdere quattro finali. Sempre contro di loro, ovviamente. E Thiem e Medvedev, gli unici a fare finale negli Slam negli ultimi due anni fra i “nuovi”, non sono forti neanche la metà dell’Andy Murray che fu.
Cosa ci attende ora? Novak Djokovic è stato molto chiaro: “Il record di tornei Slam vinti è una delle principali ragioni per cui ancora gioco tutta la stagione cercando di diventare il numero 1 della storia, che è uno dei miei altri grandi obiettivi”.
Con il Roland Garros all’orizzonte, Novak Djokovic cercherà una gestione più oculata del suo tempo da spendere nei tornei, cercando il quality time in famiglia per trovare l’equilibrio che gli consenta di trovarsi di nuovo carico mentalmente al ritorno in campo. Riposare la mente nei periodi meno importanti dell’anno, che possono includere anche i tornei Masters 1000, ma per tornare poi al top quando ci sono gli Slam, quando ogni cellula della sua mente dovrà essere pronta ad ogni sforzo per raggiungere l’obiettivo. L’approccio del 2016 con il guru Pepe Imaz è stato fallimentare da questo punto di vista: Djokovic è entrato in crisi profonda e si è ritrovato indietro nei numeri dei record. Tornato Vajda nel suo box, e con l’aggiunta dell’altro Goran Ivanisevic, il serbo è tornato il giocatore che era vincendo tre degli ultimi cinque slam disputati.
Imaz era un ex tennista professionista che non aveva ottenuto successo e che, reinventatosi allenatore e guru spirituale, voleva trasformare Djokovic in un giocatore capace di mettere da parte il suo spirito da guerriero per trasformarlo in una versione più amorevole. Chissà perché Djokovic si è convinto ad accettare questa strada, che si è rivelata sicuramente fallimentare sotto il punto di vista dei risultati. L’amore caro a Djokovic è sicuramente quello che lui può donare, con la sua fondazione, con i gesti sportivi e con l’attenzione che riserva ai suoi fan, ma è più quello che cerca fra la gente, che lo ama sì ma mai come quegli altri due là.
Ha provato in tutte le maniere a cambiare la sua natura ma non c’è riuscito. Anche perché è consapevole che sia Federer che Nadal sono della stessa pasta, solo più bravi a vendersi meglio con l’arte della dissimulazione. Ancor più convintamente allora ha deciso che l’unica maniera affinché venga riconosciuto come il migliore è quello di vincere più degli altri.
Il 5 ottobre 2020 se Nadal (o altri) non riusciranno a spodestarlo dal numero 1 del ranking sarà il giocatore ad aver trascorso più settimane al vertice della classifica. Ora è dietro Sampras e al solito Federer. E gli mancano 2 Slam per agganciare Nadal, 3 per pareggiare quelli di Federer. Quando avrà raggiunto questi due obiettivi, allora sì che Novak Djokovic potrà fieramente dire di essere il migliore. E tutti noi dovremo riconoscerlo.