Abbiamo problemi con la gente.
Nel decennio appena concluso il 2014 è stato l’anno in cui il tennis di vertice è parso concedere aperture ai tennisti di seconda fascia. E non parliamo di quelli della generazione perduta, i Dimitrov, Raonic e altri che termineranno, salvo sorprese clamorose, la loro carriera a zero slam, ma dei Cilic, Wawrinka e ci mettiamo anche Kei Nishikori che hanno vinto o sono andati molto vicini a vincere uno Slam. Stan approfittò di un Nadal malandato agli Australian Open, ma dopo aver battuto Djokovic in un’epica sfida al quinto set e comunque è riuscito a vincerne altri due; Cilic fu protagonista di due settimane da dio, non una, agli US Open. Ricorderete le semifinali: Cilic vs Federer e Djokovic vs Nishikori. A giocarsi l’accoppiata finale al picchetto, avremmo fatto i soldi.
Quello che ci aspettiamo succeda nel 2020 è un nuovo rinnovamento, per poter dire “finalmente”. Medvedev è quello che, fra i giovani, è arrivato a un solo set dal vincere uno Slam. Agli US Open ‘19 ha trovato un Nadal che non spreca occasioni per avvicinarsi a Federer nel record dei record, il numero degli Slam (ora è a 19, ne manca solo 1 per eguagliare il dioscuro svizzero). Ma più di altri, il russo è quello che sembra pronto e determinato per centrare il bersaglio grande: a guardarlo giocare, sembra non voglia perdere mai ogni singolo punto. E poi c’è Tsitsipas, il vincitore delle ATP Finals, che non sarà magari costante come i suoi coetanei, distratto com’è dal cercare di trovare un equilibrio fra professionismo e vivere la vita come un ragazzo qualsiasi, ma nel breve periodo può battere chiunque. Ha già battuto tutti, può farlo di nuovo.
Dietro di loro i soliti: Dominic Thiem deve vincere uno Slam, le due finali al Roland Garros perse contro il solito sono grandi cose ma, ancora, deve fare meglio; Sasha Zverev non può limitarsi ai Master 1000, nei quali spesso qualcuno fra i migliori si distrae, ma l’impressione è che ci siano ancora troppe cose da sistemare nella sua testa per arrivare in fondo; e poi, magari come per una sorta di Slam alla carriera, potrebbe riuscirci un Grigor Dimitrov capace di prolungare exploit come la semifinale agli US Open 19 quando battè Federer per poi arrendersi a Medvedev.
Uno a cui non è mai piaciuto perdere quando era invincibile, pensate quanto debba piacergli perdere oggi contro Tsitsipas o altri. Lui lo ripete sempre: “Gioco per vincere”, quando si renderà conto che vincere sulla lunga distanza è impossibile, allora smetterà. Se è vero che a Wimbledon 2019 ha avuto l’occasione per diventare immortale, per girare a suo favore la partita del decennio, è anche vero che le altre sconfitte negli Slam e nei tornei più importanti sono da considerare normali per un giocatore che quest’anno compirà 39 anni. Al netto dell’eccezionalità di quanto è capace di fare ancora oggi in campo ad altissimo livello – Federer potrebbe rimanere nella top 100 anche a 45 anni – è ipotizzabile che se la prima parte di stagione non dovesse andar bene Roger potrebbe chiudere la carriera à la Flavia Pennetta, un ultimo grande successo per poi salutare tutti e andare in tour come una rockstar nei paesi che non ha mai visitato prima.
A Tokyo?
Il tennis femminile degli ultimi anni è stato il controcanto di quello maschile. Mentre negli uomini non si è mossa foglia o vinto slam senza che quei tre non avessero da ridire tra le donne, negli ultimi quattro anni non ci sono mai state vincitrici uguali in nessuno degli slam. Kerber, Stephens, Osaka, Andreescu, Muguruza, Halep, Ostapenko, Barty, Wozniacki, si sono aggiunte al solito nome, quello di Serena Williams, che nel 2017 a Melbourne, già incinta di qualche giorno, vinse il suo ultimo Slam. Da allora, la più forte giocatrice di sempre ha inseguito con una non scontata caparbia l’ultimo tassello che le manca per eguagliare una che dovrebbe essere eliminata dai consessi civili oltre che dalla storia di un qualsivoglia sport. Sebbene ogni persona per bene non possa che fare il tifo per una donna che con tutta la scompostezza che volete ha sbattuto in faccia a tutto il mondo la sua superiorità senza essere l’aggraziata ragazzina che tanto piace ai maschi bianchi, difficilmente la corsa di Serena giungerà al traguardo.
In questi due anni la manifesta superiorità della Wlliams, si è fermata in finale, ma in modo sempre molto brusco. A Wimbledon ha racimolato 10 game in due finali contro Kerber e Halep, a New York è andata un po’ meglio contro Andreescu, dopo la famosa sconfitta contro Osaka del 2018, ma lo stesso è sempre stata lontana dal vincere un set. Il tempo che passa non è fatto per migliorare le cose e solo l’infinita incompetenza dei soliti addetti ai lavori può far credere che questa varietà di successi sia figlia di un livello più basso dell’intero movimento. Se giocatrici straordinarie come Petra Kvitova o Karolina Pliskova non sono ancora riuscite a incunearsi in questo numero difficilmente ci riuscirà Serena, anche perché quest’anno si aspettano ragazze come Bencic, Bertens o quella Sabalenka che ha avuto un anno complicato ma che è in grado di mettere tutte quante in fila. Insomma il tennis femminile è in gran salute e la Serena che fu avrebbe avuto qualche grattacapo per mettere tutte quante in fila. Quella di oggi non ci riuscirà.
Gli anni ‘10 sono finiti con il tramonto della Coppa Davis, la cui importanza è un mistero glorioso. Se per Federer è sempre sembrato un fastidio da onorare solo per dare una lucidata all’alone di santità, Nadal e Djokovic spesso l’hanno presa sul serio tanto che il serbo ha più volte ripetuto che la vittoria del 2010 fu determinante per la svolta della sua carriera e la trasformazione in RoboNole. A metà si situa Nadal che, grazie ad un gruppo di connazionali di ben altra pasta rispetto a svizzeri e serbi, ha potuto serenamente vincere quello che voleva vincere e lasciar perdere se riteneva di avere meglio da fare.
Se per i big è stata un più o meno prestigioso modo per aumentare popolarità e palmares, chi non è assunto all’onore degli slam l’ha utilizzata per placare le proteste di chi chiedeva conto e ragione dell’impiego di risorse pubbliche per così miseri risultati. Così un quarto di finale regalava preziosi minuti di conferenza stampa diluiti nel corso dell’anno e voci positive nei bilanci di medio periodo. La rilevanza tecnica della manifestazione è sempre stata molto dubbia, a voler essere generosi, anche se pure lì – non credete a quanto dicono in giro i cantori – alla fine il più forte vinceva e quello più scarso perdeva, come tennis vuole. Peccato che alla fine la Davis creasse più problemi di quanto fosse normale gestirne e che interessasse davvero solo la finale, a condizione di essere connazionale dei finalisti e che quindi reclamasse quanto meno una riforma.
Il successo non si sa quanto previsto di un’iniziativa che sembrava del tutto estemporanea come la Laver Cup – che ha fatto registrare uno straordinario interesse di pubblico e un inusuale clima tra i giocatori – ha in qualche modo accelerato le grandi manovre intorno alla Davis. Prova ne è la rivelazione di Sergey Stakovhsky, giocatore ucraino membro del board dell’ATP negli anni passati, sulla genesi della ATP Cup. Sergey ha dichiarato che la Kosmos, l’azienda che ora cura la nuova Davis Cup, aveva contattato dapprima l’ATP per una competizione a squadre. In disaccordo con la data (Kosmos esigeva che si giocasse a novembre o dicembre), l’azienda che ha nel calciatore Pique uno dei leader si è rivolta all’ITF, che ha accettato a cuor leggero e portafoglio pesante le pesanti variazioni proposte sul formato e che sostanzialmente ha chiamato “Coppa Davis” questo nuovo torneo che si disputa nella settimana in cui si teneva la finale di Davis.
L’ATP ha corso ai ripari appunto organizzando l’ATP Cup, in una data e in luogo perfetti considerato l’imminente slam. Le grandi manovre non sono ancora terminate e non è improbabile una qualche tregua tra ITF – che controlla Slam e Davis – e l’ATP – che controlla il resto del circuito. Sembrerebbe certo che questo possa essere reso possibile non solo dall’interesse del pubblico – drogato dal grande nome dei protagonisti e da quello che da solo richiamerebbe folle oceaniche e darebbe lustro al torneo di Bogotà – ma anche dalla voglia dei giocatori di disputare un torneo anomalo, nel quale si gioca “insieme a” e non solo “contro di”. Guardando le scene delle esultanze di giocatori spesso freddi come Zverev, o disinteressati come Kyrgios, ma anche il coinvolgimento del resto della squadra durante doppi tra semi-carneadi sembrerebbe persistere un desiderio di competizione “a squadre” che non viene scalfito dalla natura individualista del tennis.
Ad ogni modo Tennis Australia, che è partner dell’ATP nell’organizzazione dell’ATP Cup, ha un contratto di dieci anni e la possibilità di rendere il torneo itinerante a due condizioni: che si svolga nella zona Asia/Pacifico, e che ci sia il consenso dei giocatori. La Cina è una delle probabili mete delle future edizioni del torneo. Vien da se che questo rende una possibile fusione per un unico torneo a squadre una svolta molto difficile, ma non impossibile.
Senza per forza doversi coprire di ridicolo esaltando imprese sì eccezionali, e cioè Berrettini che si qualifica alle finals con il numero di punti minore degli ultimi 10 anni nella race, ma comunque lontane da un successo Slam, non c’è dubbio che il 2019 lascia molte speranze a chi pure nel tennis ha preso il virus del nazionalismo. La top 10, molto inaspettata, del romano e i buoni segnali di Sinner si sono sommati alla vittoria di Monte Carlo di Fognini (con annessa top 10 per qualche settimana a latere) facendo dimenticare il repentino rientro nei ranghi di Marco Cecchinato e le difficoltà di crescita di Sonego.
Il 2020 ci dovrà dire se fu e se sarà vera gloria, anche se i conti si cominceranno a fare in primavera inoltrata. Sarà allora che Berrettini dovrà cominciare a difendere qualche buon risultato mentre Sinner avrà alle spalle i tornei americani oltre allo slam australiano. Un anno fa di questi tempi Felix Auger Aliassime era più indietro dell’altoatesino ma prima due finali sulla terra sudamericana poi la vittoria contro Tsitsipas a Indian Wells e l’exploit di Miami gli diedero la spinta per arrivare in top 20. Lo stesso percorso per Sinner sarebbe già una cosa fantastica ma per quanto il ragazzo abbia fatto intravedere idee chiare e grande personalità, tatticamente sembra ancora un po’ grezzo. Ma c’è Piatti dietro di lui, e le dichiarazioni rilasciate dal coach che ha portato Ljubicic al numero 3 del mondo lasciano ben sperare: forse Sinner è il giocatore più forte mai avuto a disposizione da Riccardo Piatti. Il coach lavora su un progetto biennale, tiene basse le aspettative e si prepara a gestire le sconfitte che inevitabilmente arriveranno. A Bordighera, sede del clan Piatti, passano alcuni fra i migliori del mondo per allenarsi, Maria Sharapova è una residente fissa e Sinner non potrà che beneficiare di questo melting pot di campioni che dividono il campo con lui. Diciamo che Piatti è una garanzia in tal senso, se Sinner può farcela, ce la farà. Ad ogni modo tra lui e Berrettini aspirare ad una finale slam sembra legittimo ma per accadere devono succedere tante cose. Forse troppe.