Abbiamo problemi con la gente.
By Daniele Vallotto Posted in spotting on 22 Settembre 2015 6 min read
A meno che non ci siano scossoni francamente impronosticabili, con Lleyton Hewitt se ne andrà l’ultimo singolarista in attività ad essere riuscito a vincere nella sua carriera sia uno Slam in singolare che in doppio. Una volta era frequente che chi partecipasse ai tornei di singolare partecipasse anche al torneo di doppio, anche negli Slam. Oggi succede sempre più raramente. Di sicuro non tra gli uomini, mentre tra le donne c’è qualche eccezione. Ma la tendenza, da anni ormai, è privilegiare il singolare. Il motivo è facile da intuire: il tennis attuale richiede troppe energie e perciò conviene dedicarle alla disciplina più redditizia e seguita.
Il doppio è sempre stato il fratello minore del singolare e la forbice di prize money, prestigio e importanza sta aumentando di anno in anno. Ne è una prova il fatto che le rare volte in cui i top player decidono di giocarlo (è capitato a Indian Wells, ma perché Larry Ellison ha argomenti molto convincenti), la notizia finisce subito tra le curiosità di giornata come se si stesse per giocare un’esibizione. Roger Federer, Rafael Nadal, Novak Djokovic, Andy Murray e Stanislas Wawrinka hanno vinto in tutto zero Slam in doppio, uno in meno di Hewitt. Ma pure l’australiano, nel momento migliore della sua carriera, dovette fare una scelta. Nel 2000 giocò 37 incontri in doppio, perdendo 9 partite e conquistando due titoli (Indianapolis e gli US Open). Quattro anni dopo, nell’anno dell’esplosione definitiva di Roger Federer, giocò appena due partite in doppio. Solo recentemente, visto che in singolare è poco competitivo, Hewitt è tornato al doppio, con la speranza di portare l’Australia in trionfo nella Coppa Davis. Le aspettative degli australiani, però, sono naufragate a Glasgow contro i fratelli Murray.
Secondo John McEnroe, vincitore di sette titoli Slam in singolare e nove in doppio (più uno nel doppio misto), giocare il doppio gli ha permesso di esprimersi meglio in singolare. Tuttavia, al giorno d’oggi, dice sempre McEnroe, “è un mistero perché si giochi ancora il doppio”. È pur vero che una tennista come Sara Errani è cresciuta anche grazie alle sue partecipazioni nei tornei di doppio, dove ha vinto cinque titoli Slam assieme a Roberta Vinci: ma Errani è una giocatrice atipica che gioca praticamente senza servizio e che ha dovuto affinare altri colpi per sopperire ad una lacuna che non le avrebbe mai permesso di arrivare ai livelli raggiunti nel 2012. La normalità è ben altra e oggi, soprattutto nel tennis maschile, nessun top player (o tennista con velleità da top player) pensa seriamente di giocare il doppio per migliorare in singolare. E il pubblico, ovviamente, si interessa sempre meno ad una disciplina effettivamente complicata da capire – perché i movimenti non sono affatto banali e i punti vengono giocati su equilibri sottilissimi – e che oramai viene vista come un diversivo prima dello show vero e proprio, cioè i match di singolare.
Non c’è dubbio che la coppia più rappresentativa del doppio, attualmente, sia formata dai due trentottenni che sono anche i primatisti in quanto a titoli Slam, i fratelli Bryan. Più di cento titoli, sedici Slam e un Grande Slam sfiorato nel 2013: quando i giornali si occupano di doppio, il loro nome è imprescindibile. Anche perché i due fratelli, tranne una breve parentesi di gioventù, si sono sempre e solo dedicati al doppio. Il 2015 è stato un anno difficile per i Bryan, probabilmente il peggiore da quando hanno cominciato a vincere i titoli più importanti. Sebbene siano ancora al numero 1 del mondo, i due statunitensi non hanno vinto nessuno Slam, cosa che non succedeva dal 2004. Ma anche senza titoli Slam, questi due fratelloni sono ancora visti da tutti quanti come il simbolo di una disciplina tendenzialmente snobbata. Una disciplina che nel 2005 stava per prendere una direzione completamente diversa da quella che conosciamo oggi e che i Bryan hanno contribuito a mantenere tale.
Che sia un bene o un male, non lo possiamo sapere perché quella svolta non avvenne. Fatto sta che dieci anni fa i Bryan fecero sentire tutto il loro peso, guidando una rivolta nei confronti dell’ATP. Era successo che il governo del tennis aveva deciso di cambiare forma ad una disciplina che suscitava poco interesse, ad essere generosi, tra gli appassionati. Allora come ora se il torneo di doppio non lo vincevano giocatori di casa – e allora l’evento viene pubblicizzato sin troppo oltre l’effettiva rilevanza – nel giro di un paio di notti tutti lo avrebbero dimenticato. E tra i gli stessi tennisti non è che le cose andassero – e vadano – tanto meglio. I top-100 del singolare che si dedicano al doppio sono un’eccezione, e in genere lo fanno solo per testare qualche colpo o a che punto sono con la loro preparazione fisica. L’idea dell’ATP in fondo aveva senso: poteva partecipare ai tornei di doppio solo chi aveva punti in singolare. Era il punto focale di una riforma più ampia, che prevedeva anche di accorciare la durata delle partite con l’abolizione del deuce (quindi sul 40-40 si sarebbe giocato un solo punto che avrebbe assegnato il game) e l’introduzione del tie-break sul 4-4 oltre al super tie-break al posto del terzo set. L’ATP è riuscita a introdurre qualche modifica nel punteggio, ma la regola che più importava ai doppisti, quella che imponeva di avere punti nel singolare, non passò. I doppisti si coalizzarono e decisero di denunciare l’ATP: tra di loro c’erano anche i fratelli Bryan, come mostra questo documento pubblicato dal New York Times.
Fu una mossa clamorosa – l’ATP è un’associazione formata dai giocatori stessi – e provocò uno stallo che costrinse gli organizzatori del torneo di Madrid a minacciare di non ospitare il torneo di doppio per quell’anno finché la situazione non fosse stata risolta. Furono coinvolti circa cento tennisti e Wayne Bryan, il padre di Mike e Bob, presentò un documento, il “Doubles Bill of Rights”, in cui si sosteneva che l’ATP violava il proprio compito di promuovere il doppio, escludendo dalla partecipazione alcuni tennisti e favorendone invece altri. La fine è nota: l’ATP fece marcia indietro e i Bryan vinsero la loro battaglia. Il New York Times ha scritto qualche giorno fa che allora i fratelli Bryan “salvarono il doppio”. A giudicare da come sta il doppio dieci anni dopo quella contesa legale, non sembra che i Bryan abbiano salvato proprio nulla, tranne sé stessi. Il che non è necessariamente un male, perché vederli giocare è ancora un piacere, ma la situazione di questa disciplina è ormai congelata da un paio di decenni e non sembra destinata certo a migliorare. Forse, quando i fratelloni andranno a godersi la più o meno meritata pensione, si potrà tornare con maggior serenità a discutere di riforme. Il peso “politico” della coppia Rojer/Tecau o Dodig/Melo (numero due e tre della Race) o, figurarsi, di Bolelli e Fognini (pur sempre coppia numero sei del mondo) non è neanche lontanamente paragonabile e la possibilità che si mettano di traverso praticamente inesistente. Rimane da capire se il dopo Bryan otterrà l’effetto di riavvicinare in qualche modo i top player al doppio o se sarà invece il colpo mortale sulla specialità.