menu Menu

Addio, e grazie per tutto il pesce

Tre anni fa furono paure e furono lacrime. Oggi sono baci e sono sorrisi. Mardy Fish, sconfitto al secondo turno dalla testa di serie numero 18, Feliciano López, saluta gli US Open con un pizzico di rimpianto perché a nessuno piace perdere al quinto set, ma l’ovazione del Louis Armstrong per il suo quasi-campione è stata comunque un degno finale per la carriera dello statunitense. Forse non è stato esattamente il saluto che Fish aveva sognato, ma anche se non ha potuto giocare il doppio con l’amico storico Andy Roddick, New York gli ha regalato un’ultima vittoria dopo un match durato due ore e cinquantadue minuti e un emozionante sequel al quinto set nel turno successivo. Si temeva che la mini-tournée statunitense sarebbe stata una serie di sconfitte ai primi turni, invece Mardy si è preso una vittoria contro un top-20 (Troicki, battuto nettamente a Cincinnati) e l’ultima vittoria in un torneo del Grande Slam, tre giorni fa. Per lui era l’ultima partecipazione in un Major, per Marco Cecchinato, il suo avversario al primo turno, la prima: è stata l’esperienza a prevalere, anche se la tensione era equamente suddivisa: “Guardi l’orologio e ti domandi: ‘Riuscirò a reggere così a lungo?’. Una volta amavo queste condizioni, invece ero nervosissimo per il tempo e per come avrei gestito la situazione”. Del resto, Mardy Fish ha dovuto imparare a convivere con un nemico invisibile e infido: l’ansia.

Nel 2012, l’anno successivo alla sua migliore stagione, Fish deve scendere in campo negli ottavi degli US Open contro il campione in carica di Wimbledon, Roger Federer, ma lo statunitense annuncia il ritiro “in via precauzionale”. Si sa poco sul motivo del ritiro. Qualche mese prima, a Miami, Fish avverte un battito cardiaco irregolare e a maggio dirà a USA Today:

“Era come se il cuore stesse per schizzarmi fuori dal petto. Durante il giorno era tutto normale, ma di notte, mentre dormivo, all’improvviso il mio cuore arrivava fino a 150-180 battiti al minuto. Ero spaventatissimo, non riuscivo ad addormentarmi per paura che succedesse di nuovo. Non volevo assolutamente rimanere solo e non riuscivo a dormire se non nel mio letto. Pensavo davvero che sarei morto.”

A maggio Fish si sottopone ad un intervento di elettrofisiologia e le cose sembrano andare un po’ meglio. Raggiunge gli ottavi a Wimbledon, la semifinale a Washington, i quarti a Toronto e Cincinnati. Agli US Open rischia grosso al secondo turno, quando si trova sotto di due set con Nikolay Davydenko, ma il russo fa cinque game negli ultimi tre set. Il match degli ottavi contro Roger Federer, però, non si giocherà mai. L’agente di Fish non dà spiegazioni esaurienti: “Non siamo sicuri di quale sia il problema e se è collegato ai problemi avuti in passato. Mardy sta bene e tornerà domani a Los Angeles ma vi posso anticipare che giocherà in Asia”. In Asia, invece, Fish non si presenta e prima di rivederlo in campo bisognerà aspettare Indian Wells, dove perde al secondo turno contro Jo-Wilfried Tsonga. Il problema di Fish sono gli attacchi di panico successivi all’aritmia di Miami e che gli impediscono di eseguire anche le azioni quotidiani più banali, figurarsi giocare a tennis nel circuito professionistico. Di fatto, la carriera dello statunitense si è chiusa poco prima di quell’ottavo di finale.

Ma Fish ha già dimostrato lungo tutta la sua carriera di sapersi gettare le difficoltà alle spalle e anche se l’ansia continua a tormentarlo, decide di non mollare. “Volevo dimostrare a tutti che è possibile sconfiggere la malattia mentale”. In campo, nel 2013, lo si vede in soli cinque tornei. Nel 2014 non ci scende per nulla, ma prova a re-inventarsi golfista: a maggio gioca le qualificazioni degli US Open e prepara il terreno per il grande ritorno. Lui, che è grande amico del golfista spagnolo Sergio García Fernández, si rifugia in questa disciplina per sconfiggere quelle paure che non gli permettono di prendere un aereo o di addormentarsi se è da solo. Pian piano, Fish torna alla normalità anche se è evidente che non potrà più tornare competitivo. Eppure a Indian Wells gioca un ottimo match con Ryan Harrison, arrivando ad un punto dalla vittoria. In estate annuncia ufficialmente il ritiro. Ma prima di lasciare in maniera definitiva il tennis, Mardy Fish si vuole concedere un ultimo giro di giostra e annuncia che giocherà ad Atlanta, Cincinnati e naturalmente a New York, nel torneo dove è cominciata la sua fine.

Andy Roddick e Mardy Fish al torneo di Atlanta
Roddick e Fish hanno partecipato assieme al torneo di doppio ad Atlanta.

Fish fa parte della generazione a stelle e strisce che si è fatta schiacciare dai titoli ottenuti da quella precedente. Pete Sampras, Andre Agassi, Jim Courier e Michael Chang: in totale, fanno 27 Slam. Dopo di loro sono arrivati Andy Roddick, James Blake e Mardy Fish. Roddick ha vinto uno Slam nel 2003 e poi ha giocato tre finali a Wimbledon senza mai vincerne una; Blake e Fish, assieme, sommano sei partecipazioni ai quarti di finale nei Major. A detta di Patrick McEnroe, capitano del team di Coppa Davis, Fish è il più talentuoso di quella generazione: “Se parliamo meramente di tennis e di come colpisce la palla, si può dire che sia il migliore di quel gruppo”. In effetti, a Fish non manca molto per definirsi un tennista completo: il servizio, ça va sans dire, è di scuola americana, il dritto è buono e a sinistra è addirittura più solido che a destra. Il vero difetto di Fish, quello che gli impedisce di fare il salto di qualità, è la condizione fisica.

Nel 2004 Fish gioca la partita più importante della sua carriera. Ha 23 anni, ha già giocato una finale a Cincinnati, e alle Olimpiadi di Atene può vincere la medaglia d’oro per il suo Paese. Non ha una testa di serie ma arriva in finale battendo il numero 5 del tabellone (Juan Carlos Ferrero) e il numero 16 (Fernando González). Dall’altra parte non c’è Roger Federer, che ha perso al secondo turno con il giovane Tomáš Berdych, bensì il cileno Nicolás Massú. In coppia con González, Massú ha appena vinto il primo oro olimpico della storia del suo Paese, battendo nella finale di doppio maschile i tedeschi Nicolas Kiefer e Rainer Schüttler. È andato a dormire alle 6:30 del mattino e tredici ore dopo sta giocando ancora per il metallo più prezioso. Fish è aggressivo ma Massú è più preciso e il primo set va al cileno; l’entusiasmo, però, lascia spazio alla stanchezza e quando lo statunitense vince i successivi due set sembra che la favola del Cile stia per terminare con un più che dignitoso finale d’argento. Massú, che quell’anno sul cemento aveva subito sette sconfitte su sette prima delle Olimpiadi, sembra non riesca più a muoversi; invece, chi comincia a pagare le fatiche è Fish: “Diventava sempre più forte e sempre meno stanco”. Fish perde il quarto set e poi subisce il break decisivo a inizio del quinto. Ad Atene suona ancora la Canción Nacional, l’inno nazionale cileno. A Fish restano una medaglia d’argento e qualche recriminazione: “Forse all’inizio ha giocato un po’ al gatto col topo. Non capisco come qualcuno possa diventare sempre meno stanco durante il match”. Per vincere quegli undici match che hanno portato due medaglie d’oro al suo paese, Massú è rimasto in campo un giorno intero: 24 ore e 43 minuti, per la precisione. Patrick McEnroe sintetizza così: “O è un grande attore o è un superuomo”.

Nonostante qualche buon risultato, la carriera di Mardy Fish non decolla. Raggiunge i quarti di finale agli Australian Open nel 2007 e agli US Open 2008, anno nel quale disputa anche la finale a Indian Wells. Ma la top-10 resta piuttosto lontana e quando Fish arriva alla soglia dei trent’anni, sembra che il meglio sia già passato. È nel 2009, quando un infortunio alla costola lo costringe a saltare gli US Open (dove difendeva i quarti) che Mardy Fish affronta la realtà: “Pesavo troppo”. Fish decide di assumere un nutrizionista, che naturalmente gli impone una dieta ferrea: niente più pizza, patatine fritte e spuntini di mezzanotte. Il risultato è visibile ad occhio nudo perché Fish perde circa quindici chili e Darren Cahill, che lo vede allenarsi a Miami, resta scioccato dal cambiamento dello statunitense: “Riusciva ad allenarsi molto più duramente”.

Il duro lavoro paga, dice un vecchio adagio, e per Mardy Fish è indubbio che abbia funzionato. Nell’estate del 2010 vince a Newport sull’erba e ad Atlanta sul cemento; inoltre torna in finale in un Master 1000, perdendo solo per 6-4 al terzo set contro Roger Federer. Agli US Open rischia tantissimo al primo turno, anche se si presenta con la classifica migliore di sempre: Jan Hajek si porta avanti di due set a uno e sembra pronto al colpaccio. Ma il nuovo Fish, asciutto nel fisico e determinato nella testa, è pronto alla battaglia e quando riesce a portarla al quinto, sente che può chiuderla. Finisce 6-0 3-6 4-6 6-0 6-1 e a fine partita dice: “Ho visto che stava faticando. È bello quando realizzi che stai stancando il tuo avversario grazie a tutto il lavoro che hai fatto”. Fish finirà il suo torneo agli ottavi contro un altro tennista che avrà bisogno della consulenza di un nutrizionista per rilanciare la sua carriera, Novak Djokovic. Con le dovute proporzioni, il salto di qualità fatto dal serbo assomiglia molto a quello fatto dallo statunitense. Per entrambi è avvenuto nel 2011: Djokovic vince tre slam su quattro, vince cinque Master 1000 e a Wimbledon conquista il numero uno del ranking; Fish torna nei quarti di uno Slam, gioca due semifinali e una finale nei Master 1000, entra nei primi dieci del mondo ad aprile e soprattutto si qualifica alle ATP World Tour Finals di novembre. A trent’anni, lo statunitense raggiunge tutto quello che non sembrava più alla sua portata.

Il 2011 è però anche l’ultimo anno che Fish passa interamente nel circuito. Al magazine online statunitense The Players’ Tribune, Mardy Fish ha raccontato le sensazioni che ha provato prima di quell’ottavo di finale con Roger Federer.

“Non giocare”.
Tra poche ore giocherò la partita più importante della mia carriera: il quarto turno degli US Open, nel Labor Day, nel giorno del compleanno di mio papà, sull’Arthur Ashe, in diretta sulla CBS, contro Roger Federer. Tra poche ore giocherò contro il più grande tennista di tutti i tempi per raggiungere il mio miglior risultato di sempre nel mio torneo preferito. Tra poche ore giocherò il match per il quale ho lavorato, per il quale mi sono sacrificato, con in palio un’intera carriera.
E non posso farcela. Letteralmente: non posso farcela.
Mezzogiorno è passato da poco; sono nella macchina che mi porterà ai campi. E sto avendo un attacco di panico.
In verità sto avendo molti attacchi di panico. All’inizio ogni quindici minuti o giù di lì, ma ben presto ne ho ogni dieci minuti.  La mia mente entra in una spirale. Sto impazzendo. Mia moglie mi chiede: “Cosa possiamo fare?”. E allora io le dico la verità: “L’unica cosa che mi può fare stare meglio ora è l’idea di non giocare”. Lei esita, mi fissa per un secondo per capire se sono serio. Lo sono. Non sto pensando. Sto reagendo, sto cercando di sopravvivere. Lei risponde con calma: “Allora non dovresti giocare. Non devi giocare. Non giocare.”

Mardy Fish nel primo turno degli US Open 2012
Nel primo turno degli US Open 2012, contro Go Soeda.

Fish sa esattamente qual è stato il punto di rottura. Gli attacchi di panico che aveva avvertito fino ad allora erano avvenuti fuori dal campo. Ma al terzo turno, contro Gilles Simon, il panico lo coglie di sorpresa mentre sta giocando.

Ero avanti di due set a uno e 3-2 nel quarto. Con la coda dell’occhio guardai l’orologio. Diceva che era l’una e un quarto. E quello, per chissà quale motivo, fu abbastanza. Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. La mia mente cominciò ad avvolgersi in una moltitudine di pensieri: L’una e un quarto. Mio dio, è tardissimo. Domani mi sentirò malissimo. Giocherò questo lungo match, poi ci sarà la conferenza stampa, poi dovrò fare i massaggi, mangiare… Mi sentirò malissimo.
E continuò a peggiorare fino al punto in cui non potevo controllarlo. Per quanto riguarda la partita, non avevo alcuna idea di ciò che stava accadendo. Nessuna. Non ricordo nulla. In qualche modo vinsi gli ultimi tre game e quindi la partita. Ma non ricordo affatto come avvenne.
Ricordo solo la conferenza stampa del dopo partita. Justin Gimelstob mi stava facendo una domanda. È un mio caro amico. Ricordo di averlo guardato fisso negli occhi e di avergli detto con un’incredibile urgenza: “Per favore, muoviti”. Justin non capiva di cosa stessi parlando. Ma io continuavo a dirgli: “Per favore, muoviti. Muoviti”.

I problemi mentali, nel tennis, non sono così rari. Petra Kvitova, campionessa a Wimbledon nel 2014, si è dovuta prendere qualche settimana di pausa all’inizio di quest’anno dopo che il suo storico coach, David Kotyza, le aveva scritto un messaggio consigliandole di staccare dal tennis per un po’. I due avevano parlato a gennaio, qualche mese dopo il suo secondo trionfo a Londra, e Kvitova, quasi alla soglia delle lacrime, aveva ammesso che lo stress la stava divorando. La ceca ha saltato i tornei di Indian Wells e Miami, due degli appuntamenti principali della stagione, dopo gli Slam. “Mi sentivo malissimo e non capivo perché”. A Roma, dopo aver vinto il torneo di Madrid, ha detto: “Se non mi fossi fermata a marzo, probabilmente adesso starei a letto senza la voglia di mettermi al lavoro. Per fortuna non è successo”. Per Fish, parlare dei suoi problemi mentali è stato terapeutico. “All’inizio il problema era proprio quello, mi tenevo tutto dentro. Ma poi, più ne parlavo, più scoprivo che c’erano altre persone che affrontavano i miei stessi problemi. Facevo delle ricerche e realizzavo quanti altri statunitensi soffrissero giornalmente di malattie mentali”.

Mardy Fish saluta il pubblico degli US Open per l'ultima volta
Mardy Fish saluta il pubblico degli US Open per l’ultima volta.

La carriera tennistica di Mardy Fish è finita in un caldo pomeriggio newyorkese, con i crampi che non gli permettevano di giocare come avrebbe voluto. È stato avanti di due set a uno e di un break nel quarto, ma alla fine ha vinto Feliciano López, che a rete gli ha detto: “Meritavi di vincere tu”. Magari in maniera metaforica, ma a Fish le metafore non interessano. La storia della sua malattia mentale, come dice lui stesso, non è una storia di sport. Non ha buttato via la partita nell’atto secondo, non vincerà il torneo nell’atto terzo. Si tratta di un capitolo della storia della sua vita e nient’altro che questo. Questa giornata di settembre e questa partita, tra poco, saranno solo un’istantanea di un album che ha molto altro da raccontare. Domani, esattamente come oggi, esattamente come ieri, le forze di Mardy Fish dovranno combattere ancora con le sue debolezze.

Mardy Fish US Open 2015


Previous Next

keyboard_arrow_up