Abbiamo problemi con la gente.
By Redazione Posted in recap on 8 Gennaio 2019 12 min read
Ormai anche le pietre sanno che fino alla fine dell’estate del 2018 a livello ATP Cecchinato non aveva mai vinto un incontro sul cemento. Il palermitano, al termine di un quadrimestre pressoché irreale, è riuscito a colmare questo non troppo lusinghiero record superando – dopo quattro sconfitte al primo turno nel cemento nordamericano – Lucas Lacko. Niente di particolarmente sconvolgente, anzi: Cecchinato aveva anche faticato non poco, ma l’esultanza a fine match la dice lunga sul peso psicologico che questo doveva avere sulla sua testa. La sconfitta successiva, contro Bautista-Agut, tutto sommato non contava più tanto e Cecchinato a questo punto si è convinto che valeva la pena, alle soglie dei 26 anni, di provare a migliorare anche lì dove non sembrava più possibile: l’hard. A Pechino il palermitano batteva Baghdatis ma a Shanghai, in un “1000” passava addirittura due turni, prima battendo Simon e poi sorprendendo Chung. Due tipi di ben altro livello, superati entrambi nel tie-break decisivo, a conferma della tenuta mentale di Cecchinato. Al turno successivo Djokovic si prendeva la sua rivincita di Parigi ma per un intero set la partita era rimasta in bilico, prima che Marco pagasse gli sforzi delle due giornate precedenti.
Uno stremato Cecchinato chiudeva praticamente lì la sua stagione, anche se arrivavano altre tre sconfitte, e mentre tutti pensavano che ci saremmo rivisti ad aprile, nel sole europeo, Cecchinato a Doha superava prima Stakhovsky, poi Pella e infine Lajovic, non proprio tre di primo piano ma che solo un anno fa sarebbe stato fantascientifico pensare di battere in serie. Cecchinato faceva soffrire anche Berdych prima di cedere il tie-break del primo set e la partita, ma i progressi erano fin troppo evidenti. Adesso Cecchinato è impegnato a Auckland (con la a) in un torneo che potrà dirci se davvero questi miglioramenti possono condurlo a lanciare la sua sfida per il primato italiano a Fognini, suo possibile avversario in semifinale. Prima deve superare Sandgren e poi Berrettini o Johnson. Ma se Fognini non ne combina qualcuna delle sue, la semifinale di Auckland rischia di diventare l’incontro più importante del tennis maschile italiano degli ultimi anni. Certo che sarebbe una vera beffa per il ligure vedere il connazionale arrivare dove lui non è riuscito, la top 10 che tanto ha desiderato fino a scegliere di evitare i big per raggranellare punti. Comunque, la strada per El Cec è ancora lunga, ma non sarà certo più difficile che arrivare in una semifinale Slam, no?
Tra le tenniste 1997 ci sono già due campionesse Slam (Jelena Ostapenko e Naomi Osaka) e due tenniste che sono entrate in top 10, giocando finali nei Premier Mandatory o vincendole nei Premier 5 (Daria Kasatkina e Belinda Bencic). Tra le classi 1998 ha cominciato a farsi vedere Aryna Sabalenka, che ha vinto un Premier 5 e a Melbourne viene considerata tra le favorite per la vittoria. Marketa Vondrousova, classe 1999, ha giocato un ottavo di finale Slam e dopo una stagione di assestamento, potrebbe farsi vedere ai piani alti della classifica. Dayana Yastremska, nata nel terzo millennio, ha già vinto un titolo WTA, così come Olga Danilovic, 23/01/2001 sulla carta d’identità alla voce “Data di nascita”, che in finale a Mosca ha battuto una sua coetanea, Anastasia Potapova. La scorsa settimana è stata quella di Bianca Andreescu, 19 anni a giugno, che ha battuto due ex numero 1 del mondo, Wozniacki e Venus Williams, prima di qualificarsi per la prima finale WTA della carriera. Anisimova, un anno più giovane, la prima finale WTA invece l’ha giocata già lo scorso settembre. Infine, c’è una tennista nata dopo la caduta delle Torri Gemelle che a Melbourne dovrà difendere i 130 punti ottenuti con il terzo turno raggiunto un anno fa, Marta Kostyuk. La situazione del tennis femminile è come sempre poco chiara, almeno per quanto riguarda i vertici, ma è cristallina la tendenza che vede le giovani sempre più in controllo del tennis femminile, una situazione piuttosto diversa rispetto a quella dei giovani del circuito ATP. È un’ottima notizia per chi ama termini vaghi come “ricambio generazionale”, “nuove leve” o per i feticisti dei termini fighi usati in modo sbagliato, come “prospetto” o “futuribile” (perdonateci), un po’ meno per le tenniste che si approssimano alla trentina e che speravano di vincere qualche torneo in più, una volta calata Serena.
L’anno scorso di questi tempi, quando in Australia cominciava la seconda settimana, Nishikori esordiva con una sconfitta al Challenger di Newport, e anche se meno di un mese dopo perdeva al tie-break decisivo la finale di New York contro Kevin Anderson le sue condizioni sarebbero rimaste un mistero. A poco a poco, e con infinita pazienza, Nishikori ha messo insieme una serie di piazzamente prestigiosi, che lo hanno portato addirittura a giocare la Finals a Londra in condizioni non ottimali, cosa che non gli ha impedito di battere Federer. In particolare la finale di Montecarlo e la semi di New York sono stati forse i punti più alti in stagione, anche se per uno con le sue caratteristiche anche i quarti di finale a Wimbledon sono stati un mezzo miracolo.
Nishikori si era curiosamente inceppato nelle finali, arrivando a perderne nove di fila prima di interrompere la serie proprio in apertura di 2019, a Brisbane, dove ha vinto ma soprattutto ha decisamente convinto. Se è vero che in tre delle quattro partite giocate ha faticato parecchio è anche vero che il gioco del giapponese è andato via via crescendo, e la relativa facilità con cui si è sbarazzato di Dimitrov – che in questa parte dell’anno sembra sempre pronto a compiere chissà quali sfracelli – ci ha restituito un giocatore che alla soglia dei trent’anni si gioca l’intera carriera. Se si accontenterà delle buone prestazioni degli anni passati resterà uno di seconda fila, se trova il modo di piazzare la vittoria di prestigio, magari proprio a Melbourne, in Giappone non sarà più un semidio ma una divinità fatta e finita. Certo, Kei non deve pensare che si possa permettere di regalare un set come nella finale contro Medvedev, perché per quanto fosse ampio il divario tra i due, i set decisivi non si sa mai come possono andare a finire, perfino per chi la percentuale più alta di sempre di set decisivi vinti. Ma se riuscirà ad arrivare alle fasi finali senza concedere troppi game agli avversari e a preservare un po’ il fisico forse potrà dimenticare quella finale di Flushing Meadow.
Gli ultimi due anni di tennis avranno forse soddisfatto il grande pubblico ma per gli addetti ai lavori, e la loro puzza sotto il naso, sono stati una specie di film dell’orrore, con tanto di “ridestati” se proprio non vogliamo usare il termine “zombi”, i non morti usciti dalle simboliche tombe in cui erano precipitati per tornare ad azzannare i giovani umani. Ha cominciato Federer, pronto a vincere uno slam dopo sei mesi di pausa, ha proseguito Nadal e non poteva essere che Djokovic a chiudere la trilogia horror; e se il primo almeno accompagna i suoi ritorni con una grazia senza tempo, e se il secondo è in grado di far diventare ogni partita una specie di romanzo di formazione, il terzo, Djokovic, è sembrato quello che arriva nei campi di battaglia a spogliare quel che resta dei cadaveri. Tutto forse un po’ ingeneroso, ma un’altra stagione con l’inossidabile trimurti sarebbe davvero un po’ troppo. Non potevamo, quindi, che guardare con una certa soddisfazione le difficoltà del serbo a Doha. Il Djokovic dei tempi belli cominciava le stagioni lasciando briciole ai suoi avversari – i tifosi di Nadal ricorderanno ancora un terribile 61 62 nel 2016 – e stavolta ha perso set contro Fucsovics e Basilashvili, prima di cedere a Bautista-Agut in semifinale. Se a questo aggiungiamo che Nadal non sembra voglia (e possa) fare troppo diversamente dal 2018, l’unica preoccupazione potrebbe essere la buona forma di Federer. Ma se i giovani e meno giovani saranno in grado di stare in piedi almeno un po’ magari a Melbourne potremmo festeggiare un nuovo slammer.
Viene da sospettare che Naomi Osaka abbia voluto costruire un personaggio, agli ultimi US Open, perché le sue conferenze stampa stanno ormai diventando un rituale che gli appassionati aspettano quasi più delle sue partite. Qualche giorno fa una giornalista le ha fatto notare che all’ultimo cambio campo della sua partita, il DJ del torneo di Brisbane ha scelto la colonna sonora de “Il mio amico Totoro” (uno dei più celebri film animati di Hayao Miyazaki). Lei però non l’ha notato e allora ha chiesto alla giornalista prima di cantare il motivetto, poi di ripetere la sua prestazione per quelli che non l’avevano sentita, tra le risate della sala stampa. Il giorno dopo, ad un reporter che le faceva le solite domande sulla partita, ha chiesto se non avesse qualcosa di interessante da domandarle. Osaka sembra sempre più a suo agio fuori dal campo e anche sul campo si sta abituando al suo nuovo status da campionessa su cui tutti tengono gli occhi. Dopo quanto successo a New York, non era così scontato.
Jo-Wilfried Tsonga è diventato papà nel 2018. Poi si è infortunato al ginocchio e praticamente non ha più giocato. Sprofondato nel ranking oltre la posizione numero 250, il francese prima di ricominciare ha dichiarato di “sentire ancora la fiamma”. Conoscendo Tsonga, uno che ha più volte dato prova di averne, di coraggio, se non altro per la sua attitudine a vincere match più di spada che di fioretto, più di istinto che di ragionamento, c’era da aspettarsi che avrebbe mantenuto la sua parola. Quando poi, a novembre 2018, ha comunicato di aver aggiunto Sergi Bruguera nel suo team, abbiamo avuto certezza che ce l’avrebbe fatta. A Brisbane è entrato in tabellone grazie al ranking protetto e lui non ha fallito. Al primo turno ha battuto uno di casa, Thanasi Kokkinakis, per poi beneficiare del ritiro di Rafael Nadal e battere il giapponese Taro Daniel (ripescato come lucky loser). Arrivato ai quarti di finale, ha incontrato e battuto Alex De Minaur per 6-4 7-6, e ha raggiunto la semifinale del torneo trovandosi di fronte Daniil Medvedev, altro giovane in ascesa. La partita è durata solo un set: perso 7-6 al tie-break il parziale Jo è parso molto scarico sulle gambe. Neanche lui si aspettava di vincere tre partite al suo rientro dopo mesi di assenza. Per questa stanchezza ha rinunciato al torneo di Sydney: andrà direttamente a Melbourne dove usufruirà di una wild-card, una delle due messe a disposizione della Federazione di tennis francese.
In Australia è tornato anche Andy Murray, che ha giocato a Brisbane battendo al primo turno James Duckworth per poi perdere anche lui contro Daniil Medvedev. Murray è attualmente è il numero 230 della classifica, non è ancora chiaramente pronto per giocare e vincere con continuità. Il suo 2019 potrebbe essere come il 2018 di Stan Wawrinka, che ha giocato con una certa continuità ma senza essere mai davvero competitivo. Agli Australian Open, Murray andrà in virtù del ranking protetto, e molto dipenderà dal sorteggio. Certo che vederlo subito contro Federer o Nadal aggiungerebbe fascino ad un torneo che si preannuncia finalmente interessante, ma difficilmente vedremmo una partita equilibrata. Comunque il ritorno di Murray è un bene per tutto il circuito, almeno qualcuno dirà qualcosa di intelligente.
Si è rivisto anche Tomas Berdych, fermatosi a un solo set dal celebrare il suo ritorno in gara dopo sei mesi di assenza con la vittoria del torneo di Doha. Kohlschreiber al primo turno, Verdasco al secondo, Herbert ai quarti di finale e un ottimo Cecchinato in semifinale sono giocatori che non batti di fila se non sei in condizione. Berdych ha perso la finale al terzo set contro un tennista che si fa trovare sempre pronto a inizio stagione, Roberto Bautista-Agut, e ha dichiarato a fine gara di essere soddisfatto del suo livello di gioco. Attualmente è numero 57 del ranking e rischia di scendere ulteriormente perché l’anno scorso a Melbourne era arrivato ai quarti. Ma rivedere quel dritto così pulito è una gioia per tutti.
Stan Wawrinka, reduce da un’annata incolore, quest’anno è chiamato a dare chiari segnali sulla sua reale competitività e, a giudicare da quanto visto a Doha, la strada sembra essere quella giusta. In Qatar, Stan The Man è riuscito a battere al primo turno il numero 11 ATP Karen Khachanov, giocando in maniera convincente. Battuto anche Jarry al secondo turno, lo svizzero ha poi perso contro il vincitore del torneo Bautista-Agut. Vedremo come giocherà a Melbourne, dove arriva con il ranking di numero 59.
Infine, Ivo Karlovic. Nessuno sapeva bene se avrebbe continuato o meno a giocare anche nel 2019: ogni volta che finisce la stagione tennistica si parla sempre di un suo ritiro. Si è ripresentato in campo a Pune, India, dove ha raggiunto la finale stabilendo un record, diventando quindi il più vecchio finalista ATP dai tempi di Rosewall (1977). In finale ha perso contro Anderson, ovviamente giocando tre tie-break e perdendo il terzo di questi, quello decisivo, da un vantaggio di 5-2. A marzo compirà 40 anni, è ancora numero 69 del mondo e ce lo terremo almeno fino a fine anno. Bene così.