Abbiamo problemi con la gente.
By Claudio Giuliani Posted in tennis di periferia on 20 Luglio 2018 21 min read
Se c’è una cosa che amo di Roma è che in tutti gli angoli della città sa essere Roma. Che siano i monumenti del centro o lo struscio dei locali sul lungotevere, l’architettura borghese del quartiere Coppedé o il mercato rionale di uno dei tanti quartieri con le palazzine basse nati come abusivi, basta poco per ritrovare l’anima di questa città anche in posti così slegati all’apparenza. Così, scoprirne nuovi angoli attraverso il filtro del tennis è continuare ad amarla, ringraziarla per avermi adottato.
All’inizio della mia vita romana mi muovevo più verso il centro, com’è d’obbligo per chiunque agli inizi con la Capitale. Nel corso degli anni, quando sono diventato un romano acquisito, ho iniziato a cercare gli angoli meno noti della città. Ho scoperto che preferisco muovermi lateralmente, “tagliare” Roma attraversando le bisettrici più popolose, come via Casilina o via Prenestina, superando interi quartieri mentre ne memorizzo i tratti inconfondibili. Quando arrivo al Nuovo Tuscolo, sono nei pressi del Quadraro, dove palazzine basse e case un tempo abusive sono sì circondate dal verde, ma il verde di intere macchie di alberi abbandonati con le sterpaglie a delimitare la strada. Mi trovo a mio agio da queste parti, all’inizio di una via Tor Pignattara sempre più impegnata ad assomigliare al Pigneto, e poi sono in un luogo storico dell’antifascismo romano tanto che all’epoca, quando a Roma si chiedeva un consiglio su dove riparare dai nazisti, si diceva “O vai al Vaticano o vai al Quadraro”.
Il circolo è posizionato dove inizia via Tor Pignattara, era nato come dopolavoro dell’INPS e di recente si è rifatto il trucco. La nuova proprietà ha investito pesantemente per ammodernare quei vecchi campi scalcinati circondati dall’erba incolta e con il suolo sconnesso. Ora l’erba è verde chiaro, azzimata, il bancone del bar non ha graffi, all’ingresso c’è la reception con i tornelli e gli spogliatoi sono divisi fra quelli per gli ospiti, noi del torneo, e quelli dei soci. Un circolo di Roma nord collocato a ridosso dell’acquedotto romano, fra i mai troppo santificati negozi bangladesi di via di Tor Pignattara e il casino di via Tuscolana.
Davanti la segreteria del tennis ci sono i divani posizionati sotto l’ombra di alberi altissimi, il rumore è quello dei passi dei tennisti sull’acciottolato che conduce ai campi. È qui che stringo la mano al mio avversario di primo turno, un pari classifica molto alto che mi sorride. Di solito, alle presentazioni, i tennisti di periferia cercano di assumere già un atteggiamento iper concentrato. Io sono tranquillo e riesco a parlare serenamente anche fino a un attimo prima della contesa. Durante i palleggi questo tipo mi impressiona. Colpisce bene la palla, che esce con poco effetto dalle corde della sua racchetta, e quando prova i servizi fa i cosiddetti buchi per terra.
Io ho giocato il giorno prima col solito Eddy, non mi sento in forma e nei miei piani c’era di giocare un turno facile. Il tipo inizia battendo fortissimo, solo che fa un doppio fallo. Vado a ricevere a sinistra, lui ne fa un altro. Riesco a rispondere ad una sua prima molto angolata, e lui sbaglia un dritto tirandolo a una velocità che è metà di quella dei palleggi. Vado subito in vantaggio per uno a zero, lui mi sembra molto meno forte di prima. Io cerco di fare il compitino, di mettere in campo le prime palle e di non sbagliare da dietro cercando di controllare i miei colpi col topspin perchè le palle, delle tecnifibre già usate, sono leggerissime. Vinco i miei turni al servizio agevolmente mentre lui fa almeno due doppi falli ogni volta che serve. Dopo venti minuti ho già vinto il primo set per 6 a 0, altro che trovare la forma giocando. Avremo fatto un paio di scambi sopra i tre/quattro colpi tanto che in un game, dopo la solita razione di doppi falli, lui ne mette una dentro e io sbaglio a rispondere, deconcentrato. Sorrido mezzo incazzato più per la situazione che per il punteggio. Di fianco alla recinzione c’è un socio del circolo, un signore sulla settantina che guarda la partita con le braccia ai fianchi, abbronzato e con le infradito ai piedi. Cerco il dialogo, gli dico una cosa tipo «questo quando la mette dentro fa punto perché io a momenti non ci credo che entra ‘sta palla». Con la flemma tipica dei romani quando parlano, mi dice «vabbé, mo lascia sta e stai concentrato». Mio figlio è al mare e addirittura c’è mia moglie presente, con il corpo però, perché ogni tanto la guardo ed è distratta sulla panchina a fare carrelli o accumulare punti su Candy Crash.
Il match è talmente semplice che non posso perdere. Ogni tanto riusciamo a giocare qualche colpo di fila, delle volte sbaglio, ma a me basta veramente poco per andare avanti anche nel secondo set. Lui è chiaramente frustrato, avrà fatto più di 20 doppi falli, qualcuno pure su quelle due palle per fare il game che si procura e che non riesce a trasformare nonostante io fossi disponibile ad agevolarlo. Si prende un altro 6/0, a fine partita mi chiede scusa visibilmente costernato. «Ma figurati», gli dico. Cala il sole dietro i palazzi bassi di Tor Pignattara, la luce è soffusa ma resiste quando sono passate le otto e la temperatura è quella desiderata da chi ama il caldo e la birra.
Il giorno dopo gioco gli ottavi di finale passate le 19. Il luglio romano continua ad annerire le mie braccia già nere. Gioco contro la testa di serie numero 4, un 3.2 alto e fisicamente molto grosso. A differenza dell’altro, questo la mette dentro quando serve forte. Nonostante ciò, giocando un paio di dritti buoni fin da subito, riesco a procurarmi una palla break al primo game, sul 30-40. Serve sulla mia sinistra, io mi allungo mettendo il piede destro ben davanti al sinistro, blocco il polso e con l’avambraccio indirizzo una risposta vincente in lungolinea di rovescio, come fa quello svizzero sui prati inglesi in queste giornate di luglio: break. Servo io e riesco a perdere un game da 40 a 15. Ho un po’ di ansia nel voler chiudere il punto, forzo qualche dritto; lui cerca di mettermi pressione, gioca un dritto abbastanza piatto e di rovescio taglia molto bene, trovando spesso profondità di palla. Cambiamo campo sul 2 a 1 per lui.
Io servo una prima esterna da destra a tutta velocità ma una sua risposta vincente incrociato mi fulmina. «Caspita», mi dico. Se gli servo sul rovescio mi torna sempre indietro un backspin profondo, allora comincio a insistere da quella parte, “spostando la palla” solo quando mi sono aperto il campo. Dopo qualche game mi accorgo che sono entrato di nuovo in palla, insisto sul suo backspin che rimbalza basso, ma come mi disse una volta Eddy in allenamento, “ao a questo er back non je fa un cazzo”. Pur sapendo giocare un buon rovescio tagliato, io preferisco sempre caricare col topspin, scendendo bene con il ginocchio destro e piantando il piede destro ben davanti al sinistro. Raramente sbaglio. C’è però vento, una brezza rinfrescante ma fastidiosa per il gioco.
Perdo comunque un altro game da 40 a 15 e mi ritrovo sotto 4 a 2. Lui fa qualche doppio fallo, mi aiuta, io accorcio sul 4 a 3. Per un attimo avevo pensato di aver perso il set e forse la partita, poi ho pensato che ero uno scemo. Ho chiaramente fiducia in me stesso: dopo una mezz’ora è lui che rimette e io che spingo, il match è nelle mie mani. Faccio tre game di fila e chiudo il primo set per 6-4, recuperando un game da 15-30. Ho messo a segno diversi vincenti e un rovescio lungolinea in contropiede ha “costretto” gli spettatori, sempre di più, a battere le mani. Anche il suo amico-tifoso mi dice bravo. Siamo sul campo tre, uno di quelli senza le tribune, ma comunque una decina di persone si è seduta a vedere la partita “tecnicamente più interessante della serata”, almeno così la commenterebbe un telecronista.
Il vento si è placato, al servizio non sbaglio più niente e da fondo campo ancor meno. Alle otto fa ancora molto caldo, faccio il break quando ancora c’è piena luce. Poi vinco ancora un altro game quando lui serve. Non sbaglio nulla, recupero una smorzata che avevo battezzato irraggiungibile buttandola di là con la stecca della racchetta all’ultimo centimetro di aria utile, lui è sorpreso del mio recupero e risponde con un pallonetto visto che io sono attaccato a rete, riesco a staccare i piedi da terra e piazzare una veronica che si rivela vincente, lui è sorpreso e mi chiede se l’ho presa al primo rimbalzo. «Certo», gli dico risultando un po’ sbruffone.
Non ho mai battuto un giocatore classificato 3.2 in torneo. Che io non valga la mia classifica è fuori discussione, ma c’è da farlo certificare dalla FIT. Continuo a giocare benissimo, sono galvanizzato e penso che sia impossibile perdere un punto tanto che, quando mi esce un vincente di qualche centimetro, mi arrabbio. Vado sul 5 a 2 e chiudo al secondo matchpoint con l’ennesimo vincente in lungolinea col dritto, libero un altro “vamos” nell’aria mentre mia moglie mette in volto il sorriso dei giorni migliori, un sorriso che è tutto per me e poco per lei. Tocca ancora alla birra post partita, il sole scompare dietro i palazzi del Quadraro senza però far scendere la temperatura. Noi attraversiamo la Casilina e ci rilassiamo in un parco dove c’è il Monte del Grano, un mausoleo di Alessandro Severo, imperatore romano, ma anche una statua tributo che ricorda il rastrellamento del Quadraro del 17 aprile del ‘44. Ci fermiamo a leggere la targa e proviamo a capire cosa può essere stata quell’epoca, noi che veniamo ora dal tennis, in un periodo nel quale si respinge invece di rastrellare ma sempre della stessa sostanza si tratta.
Un paio di giorni dopo, fresco e riposato, torno al circolo per giocare i quarti di finale. Alle quattro del pomeriggio ci metto un niente per attraversare Roma e ritrovarmi di fronte a un altro 3.2. Io non vedo l’ora di iniziare. Ho le racchette appena incordate, con le corde che uso di solito ma con un calibro più piccolo, perché non c’erano quelle che desideravo. Per dire la vita del tennista di periferia: ho giocato il primo turno con delle corde vecchie e molto lente, il secondo con una corda totalmente differente dalla solita e oggi giocherò con la corda che mi piace ma col calibro inferiore perché il negozio aveva finito quella desiderata. Ma figurarsi se questo potrà rappresentare una scusante.
Il campo è quello che costeggia via dell’Acqua Bullicante quando diventa Via di Tor Pignattara, ci sono gli alberi fra noi e la strada e quindi c’è anche ombra sul campo, quasi dappertutto. Si vede l’acquedotto e una torre spicca nella radura dietro il circolo: a Roma, a tennis, si gioca così. Faccio il break al primo game, lui non mi sembra valere la sua classifica. Batte piano, io prendo subito il comando degli scambi, chiudo col dritto, piazzo un lungolinea di rovescio che lo lascia fermo e in dieci minuti sono avanti 3 a 0. Riesce a vincere un game quando io sono sul 4 a 0, annullando anche delle palle break. Colpisce di dritto in maniera molto lineare, con poca rotazione, ma controlla molto bene la palla. Di rovescio gioca solo in maniera tagliata, ma riesce a farlo molto bene. Si nota la differenza di “scuola” fra noi due: i miei colpi sono più elaborati, col dritto una sequenza di micro movimenti si conclude con una frustata repentina che imprime un top spin alla palla facendola rimbalzare alta e pesante; lui riesce a contenere la mia esuberanza anticipando col backspin spesso in lungolinea, che io lascio scoperto perché provo a coprire tutto il campo solo col dritto. Sta crescendo, me ne accorgo, ma il vantaggio accumulato è tale che pur rimontando da 0-4 a 3-4, io riesco a chiudere 6-4 al primo setpoint tenendo agevolmente il mio turno di battuta.
Un sorso di gatorade e uno d’acqua mentre mi asciugo gli avambracci sono la routine del mio cambio campo. A cadenza quasi fissa la quiete del Nuovo Tuscolo è rotta dal fragore degli aerei in atterraggio a Ciampino. Passano bassi, e ogni volta noi alziamo la testa ad ammirare questa cosa innaturale che è volare. Non c’è nessuno a vedere la nostra partita, la tribuna da 80 posti è vuota. Mi dico che devo fargli capire fin da subito che la sua rimonta è stato un caso, e che devo rialzare il mio livello di gioco. Infatti, lui è migliorato, anticipa i rimbalzi per togliermi sempre il tempo di giocata; sono costretto a giocare ordinato e preciso, cercando di riportare lo scambio nella mia comfort zone, e cioè rimandare di là palle molto lavorate col topspin. Questo è il bello del tennis, capire cosa sta accadendo, dove si arriverà se si andrà avanti così e, in caso serva, aggiustare in corsa la situazione senza che nessuno ti aiuti: problem solving sportivo al massimo livello.
Riesco a tenere il servizio abbastanza in tranquillità, in ogni game riesco ad avere un free point, un servizio vincente o un ace. Sono molto concentrato sui miei turni di battuta e vorrei riuscire a vincerne un altro dei suoi ma lui resiste. Scaccio via ogni pensiero che non sia quello di vincere il prossimo punto. È difficile: moglie vuole sapere se ho vinto subito, gli amici sono pronti a prendermi in giro, il fratello tennista forte vuole saperne anche lui e pure io voglio regalarmi questa vittoria e festeggiare la semifinale. Ma a questo devo pensarci dopo, ora c’è da vincere il prossimo punto e tocca impegnarsi perché l’avversario non mi regala nulla.
Come se fosse una partita fra quelli bravi sul serio, entrambi teniamo il servizio. Sempre. Salgo 3 a 1 e lui accorcia 3 a 2, allungo 4 a 2 e lui risale sul 4 a 3, arrivo a un passo dal traguardo sul 5 a 3 e mi ritrovo 0-30 sul suo servizio, voglio chiuderla qui. Lui gioca bene, non molla nulla, fa quattro punti di fila e cambiamo campo sul 5 a 4. Solita routine, il gatorade è finito, l’acqua fresca c’è ancora. Non si gioca più sul campo di fianco, non ho più la percezione di quanto tempo sia passato tanto sono concentrato su quello che sto facendo. Mi alzo, arrivo dove devo stare per battere, pulisco la linea di fondocampo col piede, batto quattro volte la palla per terra e inizio quello che spero sia il mio ultimo game. Vado subito sul 40 a 0. Sul primo match point un mio vincente esce di poco. Sul secondo risponde aggressivo e io ribatto fuori. Il terzo è uno scambio lunghissimo, almeno da venti colpi, nel quale i fronti si ribaltano. Io resisto, lui spinge e alla fine chiude un dritto incrociato. Entrambi ci pieghiamo sulle gambe. Prendo fiato, inizia il vortice dei pensieri e per un attimo percepisco di essere stanco. Paura.
In questo momento servirebbe l’aiuto di qualcuno, ma come detto a tennis si vive e si muore da soli. Scrollo le spalle, cerco di buttare via un po’ di tensione, recupero le palline e torno alla T ribaltata di fondo campo. Servo una prima forte, lui risponde al centro e io forzo sull’incrociato: il suo dritto esce, ancora matchpoint. Esulto, recupero le palline, sbatto la racchetta dietro le scarpe per togliere la terra soffice sulla suola, mi posiziono, i soliti quattro rimbalzi e servo. Entra la prima, mi risponde sul rovescio, io ribatto incrociato ma la mia palla è corta, lui gira intorno alla palla e mi attacca con un dritto a sventaglio sul mio rovescio.
Non gioco mai il pallonetto, io sono un tipo da passante. Sempre. La palla mi arriva sul lato sinistro, non devo neanche troppo cercarla, carico il rovescio e libero il braccio con tutta la forza che ho ancora dentro, quasi chiudendo gli occhi. Dalla mia fida Yonex esce un lungolinea fulmineo, imprendibile, vincente. Urlo un “vamos” che è una liberazione. Improvvisamente sento le gambe stanche. Ho vinto, gli stringo la mano e mi fermo sulla panchina a bere guardando il sole. Ora sì che è tempo di vivere quei momenti che avevo prefigurato. «Allora fai sul serio!» mi dice il giudice arbitro quando gli consegno risultato e palline. Mi concede un giorno di riposo prima della semifinale.
Al sabato io dovrei stare al mare da mio figlio invece sono ancora a Roma. Alla vigilia ho pensato se andare o meno a giocare, perché mio figlio non lo vedo da 15 giorni e mi manca parecchio. Anche perché il mio avversario è il 2.7 che mi ha battuto a Rebibbia, quello molto forte che arriva con la solita andatura ciondolante, la maglietta larga a coprire un po’ di pancia, il cappello con la visiera larga e il marsupio. Ci salutiamo, è cordiale, parliamo mentre l’addetto alla manutenzione dei campi, un nero, ci prepara il terreno.
«Non se vede più n’italiano a rifa’ i campi», mi fa.
«Vallo a dire a Salvini», ribatto.
«A ‘sti poracci je daranno 1000 euro al mese per stare sotto il sole dalla mattina alla sera»
«Guarda lui poi mi ha rifatto il campo l’altra sera alle 19, era stanco morto e trascinava le gambe come per inerzia»
Facciamo una cosa che non fanno in molti, almeno così ho notato, e cioè rivolgiamo un semplice e gratuito “Grazie” al tipo. Io gli dico di dirmi poi chi vince fra Nadal e Djokovic, che lascio sul 7 pari quando entro in campo.
L’avversario batte piano sia in riscaldamento che in partita, scoprirò a fine match che si è fatto male alla spalla. Io parto bene e vado 2 a 0 sopra subito. C’è vento, la mia battuta ne risente anche perché lui è mancino e io devo cercargli sempre il rovescio. Intanto, mentre sfioro il 3 a 0 per ritrovarmi dieci minuti dopo sotto per 4 a 2, sento esultare qualcuno in lontananza. “È finita”, sento. Capisco che si riferiscono a Wimbledon e chiedo a un tipo che si guarda la mia partita con un occhio a noi e uno sul cellulare. “Ha vinto Djokovic 10-8 al quinto”.
Lui non può forzare il servizio, uno dei suoi punti di forza, ma batte talmente bene che anche liftando leggermente la palla questa salta tanto, costringendomi ad arretrare e a concedere troppo campo per il suo secondo colpo. È così che mi sposta parecchio, che mi costringe a prendere rischi con lungolinea di rovescio quando lui tira il dritto per non perdere campo. Io forse non ho l’atteggiamento giusto, potrei vincere qualche game in più ma forse non ho tanta voglia. Sono già mentalmente in vacanza, mio figlio mi attende e ho dovuto perfino inventare una scusa ai nonni per dire che arriverò per cena e non per pranzo. Aiuto il mio avversario a sbrigarsi e a chiudere il primo set 6 a 2.
Ai cambi campo guardo mia moglie seduta sull’erba nel prato all’ombra adiacente al campo. Si sono radunate un po’ di persone, forse per seguire il match di fianco al nostro, saranno parenti mi dico, ma quando finisco un punto e mi giro verso di loro trovo sempre i loro occhi sulla nostra partita. Mia moglie ogni tanto alza lo sguardo dal telefono, si perde il punteggio con una sistematicità impareggiabile e non riesce a capire se deve esultare o disperarsi. Il mio avversario manco si siede durante le pause, beve e controlla il telefono; ascolta qualche nota vocale, scrive messaggi. Non passa mai neanche un minuto che torniamo a fondo campo, fra i soliti aerei sopra di noi e i treni a lato diretti verso la stazione Termini.
Va avanti subito, io sbaglio qualcosa di troppo ma facciamo bei punti entrambi: lui, quando io mi sposto a sinistra per cercargli il dritto mi brucia spesso in lungolinea. Sembra mettere la palla con la mano tanto è preciso e lineare quando colpisce col dritto, imprime pochissimo effetto alla palla e questa rimane sempre in campo. Di rovescio gioca molto col taglio sotto, però profondo. Io carico bene la palla ma devo essere molto bravo con i passettini di aggiustamento, se la mia palla non esce bene dalle corde sarò costretto a rincorrere rapidamente la sua ribattuta. Da fondo campo, ad un certo punto, incrocio sul suo rovescio pressandolo, lui fa un colpo alla Paire, una smorzata lungolinea che rimbalza molto corta. Ci sono oltre 35 gradi a Roma, saranno le 5 del pomeriggio oramai, non c’è ombra e io scatto in avanti alla disperata verso la sinistra del campo. Mi rendo conto che arriverò sulla palla, devo solo decidere che farne. Scelgo anche io di emulare il francese e colpisco tenendo il piatto corte parallelo al terreno tagliando tantissimo la palla. Ne esce un colpo perfetto, che rimane praticamente per molto tempo nella mia metà campo tanto che penso di averlo eseguito male, invece quando ricade a goccia supera di pochissimo la rete, morendo a terra. Lui, che pure era corso in avanti per “tagliare” il campo e intercettare la mia ribattuta, non ci arriva e mi fa i complimenti. Come gli altri spettatori.
Giochiamo altri punti molto belli, lui mi recupera una smorzata sempre sul suo rovescio incrociando talmente stretto che io vado a sbattere alla rete per tentare di recuperarla, io lo sorprendo con un lungolinea di rovescio a tutto braccio. Andiamo di fretta, entrambi, solo che lui è più bravo. Ne scaturisce un altro 6 a 2. A fine match mi dice che oggi avrei potuto batterlo, ché lui ha un problema alla spalla perché è caduto dal furgone e che io non ci ho creduto. Io gli dico che è parzialmente vero, ma che comunque lui rimane nettamente più bravo di me. «E poi devo andare al mare da mio figlio, non lo vedo da 15 giorni e mi sembra un’eternità». «Ah sì pure io devo andare al mare da lui, ciao!». Ecco.
Esco fuori e mia moglie mi viene incontro, è felice che mi ha visto giocare, forse anche di più che il torneo è finito. Gli spettatori seduti si alzano per salutarmi, una signora mi fa dei complimenti che mi sembrano molto sinceri, sorride mentre mi dice che “giochi proprio bene”. Un altro mi chiede “come fai de cognome?”. Io sorrido e ringrazio tutti, poi prendo la via degli spogliatoi, mia moglie mi abbraccia come per guidarmi, più che altro per indicarmi la via verso le vacanze. Mentre mi lascio il Quadraro alle spalle puntando l’Eur in direzione mare dico a mia moglie «che peccato, potevo fare di più però, me l’ha detto pure lui alla fine».
«Ho capito ma se vincevi quando giocavi la finale?»
«Domani».
«Cammina Clà, mo hai rotto er cazzo».
Vacanze.