Abbiamo problemi con la gente.
By Claudio Giuliani Posted in spotting on 24 Agosto 2015 5 min read
Aaron Williams e Charles Pool sono i nomi dei due tennisti protagonisti di 7 Days in Hell, ennesimo documentario sul tennis che però, questa volta, fa ridere. La storia è un piacevole racconto di una partita finta, un falso d’autore ottimamente prodotto dalla HBO, colosso americano di proprietà Warner famoso per serie TV (Game Of Thrones, True Detective), produzioni sportive (documentari su baseball o football) o spettacoli (John Oliver, per citare uno dei più brillanti, è nel loro roster).
La formula scelta per narrare la partita dei record è quella del mockumentary, ovvero la tecnica del falso documentario che alterna parti di storia a interviste esterne, non mancando di zoommare su foto d’archivio adeguatamente ritoccate per dare ancora più credibilità al racconto. 7 Days in Hell ha due protagonisti ben famosi. Il primo è Andy Samberg, il quale ha collaborato in passato con il Saturday Night Live. Sembra che la stupidaggine, in fiction ovviamente, sia il suo forte. L’altro protagonista è più famoso, almeno in Europa. Kit Harington, infatti, altri non è che Jon Snow, personaggio dal carattere buono e dal grande cuore rimasto in vita morto nell’ultima stagione di Game Of Thrones. Se vi state interrogando sul perché l’HBO ha finanziato un documentario del genere vi diamo subito la risposta: per farsi qualche risata.
L’ambientazione del match è quella di Wimbledon, anno 2001, nell’incontro di primo turno che segna il ritorno al tennis giocato di Williams, dopo un passato travagliato. Abbiamo detto che si tratta di una storia falsa, che però prende in giro fatti veri del tennis. E quindi, detto che tutti sanno che il match più lungo della storia del tennis è durato tre giorni (quelli necessari affinché Inser e Mahut completassero il primo turno di Wimbledon 2010, terminato 70-68 per l’americano dopo undici ore di gioco), detto inoltre che l’edizione di Wimbledon nella quale è ambientata la storia fu vinta da Goran Ivanisevic, gli sceneggiatori non si sono risparmiati neanche i morti sul campo, anche qui un giudice di linea caduto in servizio dopo una pallettata scagliata da un giocatore.
Giusto a vantaggio della pedanteria, la storia che apparentemente potrebbe sembrare assurda, sta in piedi. Il match in questione viene presentato come uno storico confronto fra due personalità del tennis, l’algido tennista inglese a digiuno di successi a Wimbledon, Poole-Harington, opposto allo stravagante e coriaceo americano, Williams-Samberg, yankee dallo stile metal glam che ricorda molto un protagonista di questo sport, americano anch’egli, che negli anni ’90 pensava solo a come scandalizzare il campo, fra mise improbabili poi divenute di culto, orecchini con pendente e parrucchini dotati di mèches. Avrete sicuramente capito di chi parliamo. Di contro, la noia di Poole-Harington, personaggio flemmatico che avrebbe meritato i capelli corti (Harington non può tagliarli per il contratto che lo lega alla sesta stagione di Game Of Thrones) perché come personaggio è noioso solo a vederlo, sprovvisto com’è anche dello humor inglese.
E quindi l’eccentricità dell’americano viene esaltata soprattutto dall’understatement dell’inglese, il profilo di un lavoratore indefesso incapace di sorridere e di prendere di petto gli avvenimenti. E che non deve deludere la regina, e gli inglesi: almeno questa è la richiesta che gli viene reiterata man mano che il match si allunga. Samberg-Williams, dei due, è ovviamente quello che ci risulta simpatico da subito, vuoi per l’esuberanza, vuoi perché recita la parte del villain. La contrapposizione di stile dei due personaggi funziona.
Il plot narrativo mette in scena praticamente di tutto: droga, tribunali, striker donna, striker uomo, sesso etero, sesso gay, orge (rappresentate tramite cartoni animati), tradimenti, evasioni (che danno diritto alla libertà: ah, la moderna legislazione svedese). Avvenimenti che riguardano un solo personaggio, il bad boy del documentario. A fare da intermezzo agli avvenimenti, i commenti di personaggi famosi del tennis e dello show business, quelli veri però. Ecco Will Forte, il Phil Miller di Last Man On Earth (irresistibile comedy americana), oppure David Copperfield, il suo miglior amico, oltre a John McEnroe e Serena Williams, di cui Samberg è il fratello. Infatti, nel documentario, Aaron di cognome fa Williams. Serena riesce a stento ad essere seria mentre dice che la loro storia è il contrario del classico schema americano, quello di Il mio amico Arnold, ovvero una famiglia bianca che adotta il povero piccolo di colore. E poi c’è la regina d’Inghilterra, quella finta, un personaggio che perde spesso l’aplomb, e che viene riproposto in maniera più energetica rispetto alla flemmatica versione reale.
7 Days in Hell è scritto da Murray Miller, autore di commedie cartonate come American Dad!, ed è diretto da Jake Szymanski. Di tennis vero e proprio, oltre al prato verde e qualche racchetta che svolazza qua e là, praticamente non c’è traccia. I due devono aver preso qualche lezione, almeno un paio, anche se sembrano due non classificati che giocano un match sul centrale di Wimbledon. La storia, che dura quarantacinque minuti, si lascia vedere volentieri. Per l’ennesima volta, ai tempi in cui si discute se Kyrgios sia il nuovo cattivo del tennis, e quindi quello da amare, alla fine su 7 Days in Hell ci si ritrova dalla parte di Samberg. Solo che qui è fiction. E poi non è detto che il cattivo vinca la partita dei sette giorni all’Inferno.
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