Abbiamo problemi con la gente.
Nei tornei degli Slam disputati nel 2002 ci furono otto finalisti diversi: in Australia si giocarono il titolo Marat Safin e Thomas Johansson, a Parigi ci fu il derby tra Albert Costa e Juan Carlos Ferrero, a Wimbledon toccò a Hewitt e Nalbandian e agli US Open ci fu il classico dei classici, che però arrivò in maniera del tutto inaspettata: Agassi contro Sampras. In sostanza, arrivarono in finale i due migliori giovani (Hewitt e Safin, che avevano allora 21 e 22 anni), un altro giovane di belle speranze ma che doveva ancora farsi (Nalbandian, che chiuse l’anno al numero 12 del mondo), due vecchietti che ancora dicevano la loro (Agassi e Sampras), un futuro numero 1, anche lui molto giovane, prossimo alla migliore stagione di sempre ma che sarebbe presto diventato un comprimario (Ferrero) e due tennisti di cui raramente si sentirà parlare in futuro (Costa e Johansson).
Insomma, nel 2002 ci furono occasioni per tutti, tant’è che degli otto finalisti di quell’anno, solo Hewitt (agli US Open) e Safin (Roland Garros) giocarono un’altra semifinale Slam nel corso della stagione. La finale degli US Open fu il degno coronamento di una stagione incerta come se n’erano viste poche dopo il calo di Pete Sampras. Era il preludio di un periodo di dominio ancora più lungo e distruttivo di quello dello statunitense, ma fortunatamente nel 2002 Roger Federer non aveva ancora fatto quel passo decisivo che l’avrebbe portato ad annullare la concorrenza – beh, quasi tutta la concorrenza – negli anni a venire.
Il 2017, pur essendo diverso nei risultati – due tennisti che si sono spartiti i quattro titoli dello Slam – assomiglia molto a quella stagione di quindici anni fa. Se Sampras e Agassi non dominarono come hanno fatto quest’anno Federer e Nadal, è per via di due ragioni: da un lato perché i giovani di allora erano sicuramente più pronti di quelli di oggi – nel 2000 un ventenne Safin prese a pallate un Sampras ventinovenne nella finale degli US Open, per esempio -, dall’altro perché i due fenomeni di oggi sono di una pasta addirittura più forte di quegli altri due. Ma la carta d’identità di Federer e Nadal continua ad ingiallire e l’anno prossimo i due compiranno rispettivamente 37 e 32 anni. L’età media dei tennisti si è alzata negli ultimi tempi, ma questo non significa che le rotule abbiano smesso di scricchiolare o che le schiene non risentano più dei cambi di superficie.
La finale degli US Open 2017 è stata la degna finale di un torneo dal livello incredibilmente basso: i campioni di Montréal e Cincinnati, i due tornei preparatori e che di solito danno buone indicazioni su quello che accadrà a New York, sono usciti al secondo turno; il tennista che aveva vinto l’altro Slam su cemento e i primi Masters 1000 dell’anno non si è presentato nelle migliori condizioni e ha perso contro un tennista che continua a esaltare le folle ma che è ormai un’imitazione di quello che vinse il titolo a New York otto anni fa; il campione dell’edizione 2014, finalista a Wimbledon due mesi fa, si è presentato senza aver giocato un torneo di preparazione e ha perso anche lui nella prima settimana. Le assenze di Murray, Djokovic, Wawrinka, Nishikori – ossia quattro tennisti che hanno giocato almeno la finale in questo torneo nelle ultime cinque edizioni – hanno fatto il resto. In particolare, il ritiro di Murray ha sbilanciato il tabellone, dando un’irripetibile opportunità a tennisti che non avranno mai più una possibilità così ghiotta.
Alla fine sono usciti i nomi di Rafael Nadal, la testa di serie numero 1, e Kevin Anderson, numero 28 del tabellone. È davvero inutile riassumere la finale, vista la povertà tecnica a cui sono stati costretti gli spettatori dell’Arthur Ashe. Non certo per colpa di Nadal, che questo titolo l’ha già vinto due volte e contro avversari decisamente superiori ad Anderson, ma per colpa di un tennista a cui il fato ha deciso di regalare la finale più prestigiosa della carriera. Fosse capitato in un terzo turno, e i rispettivi ranking l’avrebbero permesso, forse questo match sarebbe andato in un altro modo e in molti si sarebbero segnati Nadal-Anderson come il match da seguire, viste le oramai note incertezze dello spagnolo sul cemento. Invece Nadal al terzo turno ha trovato Leonardo Mayer, che per un’ora l’ha messo in difficoltà; dal quel turno in poi lo spagnolo è riuscito pian piano a trovare il tennis sufficiente a superare i turni successivi senza troppi problemi.
Serve a poco ricordare il ranking degli avversari incontrati da Nadal, o peggio ancora quelli incontrati da Anderson (un solo dato: era sotto di un break nel quarto set contro Paolo Lorenzi), ma è indubbio che questo Slam abbia segnato il punto più basso della stagione. Da un lato c’era un tennista che negli Slam aveva giocato solo un quarto di finale negli Slam, perdendolo nettamente, dall’altro un campione consumato che sul cemento non vinceva un titolo dal 2014 e che nelle settimane precedenti al torneo aveva perso contro Shapovalov e Kyrgios. Come detto dopo Wimbledon, gli Slam vinti da Federer e Nadal non tolgono nulla alla loro grandezza, ma nemmeno aggiungono qualcosa alla statura di questi due campioni. Il loro ritorno alla vittoria in uno Slam, Federer a Melbourne e Nadal a Parigi, è stato emozionante, seppur in maniera molto diversa, perché quando ti ritrovi a giocare per un trofeo così prestigioso dopo tanto tempo nemmeno le sicurezze granitiche di una bacheca così pesante possono aiutarti. Ma il torneo di Wimbledon prima e questi US Open poi, nel loro sviluppo via via sempre più prevedibile, non ci hanno detto nulla in più di quello che già sapevamo di Roger Federer e Rafael Nadal. E hanno invece sottolineato quello che avevano già suggerito il 2015 a firma Djokovic e il 2016 spaccato in due domini, quello del serbo fino a giugno e quello di Murray fino a novembre: dietro ai Fab Four c’è il deserto, o quasi, nonostante abbiano tutti passato i 30 anni.
Il resto della stagione, schiena permettendo, potrebbe essere appassionante per chi segue la corsa al numero 1 e chissà, magari Federer e Nadal finiranno a giocarsi il numero 1 nella finale del Masters. Più probabilmente, finiremo per archiviare questa stagione senza troppi rimpianti, in attesa che qualcuno prenda finalmente coraggio e si prenda il trono. Potrebbe essere uno dei giovani di cui si sente tanto parlare prima che inizino i tornei, oppure, e non sarebbe una grossa sorpresa, Djokovic e Murray, che l’anno prossimo faranno 31 anni prolungheranno di un altro po’ l’immobilità di un circuito arrivato a livelli francamente imbarazzanti. E se il dio del tennis lo permette, dall’anno prossimo non dovremo occuparci dei ridicoli discorsi su chi avrà più Slam tra lo svizzero e lo spagnolo, se la tattica di rispondere da tre metri dietro la riga di fondo sia giusta o meno o se il rovescio di Federer sia davvero migliorato. Forse.