Abbiamo problemi con la gente.
By Daniele Vallotto Posted in spotting on 8 Settembre 2015 8 min read
Non si sa bene perché il soprannome di William Ewing Hester fosse “Slew”, che in inglese significa “mucchio”. Probabilmente, dice qualcuno, perché con il petrolio del Mississipi aveva fatto un mucchio di soldi. Quando Hester arrivò dal profondo sud degli Stati Uniti a New York nel 1977 per cominciare il suo mandato da presidente dell’USTA, l’establishment del tennis guardò con una certa sufficienza questo uomo sempre col sigaro in bocca e a cui piaceva “bere tutta la notte e giocare a tennis tutto il giorno”. Alcuni, addirittura, lo apostrofavano chiamandolo “stupid redneck”. Hester, ad ogni modo, aveva le idee molto chiare su come funzionasse il tennis ai suoi tempi e su come avrebbe dovuto funzionare nel futuro. Soprattutto, aveva capito che Forest Hills, la sede degli US Open, non era più il posto adatto ad ospitare il torneo. A gennaio del 1977, poco prima di atterrare all’aeroporto La Guardia di New York, un grande impianto nel quartiere del Queens aveva attirato la sua attenzione. Era il complesso di Flushing Meadows che aveva ospitato la Fiera Mondiale di New York del 1939-1940 e del 1964-1965 e che era stato costruito su un terreno paludoso (bonificato per ospitare l’esposizione), definito da Francis Scott Fitzgerald “una valle di ceneri”.
La sede al West Side Tennis Club di Forest Hills andava cambiata per molti motivi. Innanzitutto, c’era poco posto per parcheggiare. Poi c’era poco posto per gli stand del merchandising e per le bancarelle degli sponsor, la cui importanza stava aumentando a dismisura, specie nei tornei più importanti. L’accordo con il West Side – un circolo che imponeva ai suoi membri di giocare solamente vestiti di bianco, esattamente come succede ancora oggi all’All Enland Lawn Tennis and Croquet Club di Wimbledon – risaliva al 1915 e niente faceva pensare che l’USTA dovesse cambiare. Ma secondo Slew il club chiedeva troppi soldi per quello che offriva. “Ci fecero un favore” disse, “perché ci spinsero a cercare qualcosa di meglio”. Il sogno di Hester sembrava una follia di un provinciale che si era montato la testa, ma in dieci mesi la nuova sede di Flushing Meadows era pronta: “The House That Slew Built”, la chiamarono i giornali di allora. Invece dei dieci acri di Forest Hills, gli US Open si trasferirono in un complesso da 46 acri e mezzo, che ospitava un campo da circa 18.000 spettatori, il Louis Armstrong (che prima dei lavori al Flushing Meadows Park si chiamava Singer Bowl) ed uno più piccolo da circa 6.000 spettatori, il Grandstand. In un anno soltanto, gli spettatori aumentarono di oltre il 25%: dalle 218.480 presenze del 1977 alle 275.300 del 1978. Fu un successo, anche se Hester non aveva tenuto in conto di una cosa. Quando aveva visitato il complesso, in pieno inverno, la parte adiacente all’aeroporto La Guardia non veniva utilizzata a causa dei forti venti da nord-ovest che consigliavano l’atterraggio su altre piste. Ma nel periodo di settembre, quando si giocano gli US Open, la pista numero 13, che si trova proprio accanto al Flushing Meadows Park, è tra le più utilizzate dell’aeroporto. Anche per questo motivo, gli US Open sono il torneo più rumoroso tra i quattro Slam.
Fino al 1997, quando iniziò la storia dell’Arthur Ashe Stadium, lo stadio con la maggiore capienza del mondo, il Louis Armstrong e il Grandstand erano i due stadi principali degli US Open. Dall’anno prossimo, però, il Grandstand non esisterà più. Terminati gli US Open 2015, il Grandstand non ospiterà più partite ufficiali dello Slam statunitense; il fratello maggiore che proietta la sua severa ombra su questo piccolo stadio da 5.800 posti, il Louis Armstrong, farà parte della storia del torneo anche nel prossimo anno per poi cambiare volto. Ma dal 2018 né il Grandstand né il Louis Armstrong ci saranno, non almeno nella forma in cui li conosciamo oggi. Già dall’anno prossimo il nuovo Grandstand da 8.000 posti sarà completamente operativo. Se si sommano i lavori per il tetto che coprirà l’Arthur Ashe dal 2016 e quello che coprirà il nuovo Louis Armstrong, l’investimento dell’USTA per il rinnovamento comporterà una spesa di 500 milioni di dollari. Un investimento necessario, dice la Federazione. “Dal punto di vista dei fan, il Grandstand è probabilmente il migliore stadio che abbiamo” ha detto Danny Zausner, chief officer del Billie Jean King National Tennis Center. “Ma ha cinquant’anni e anche se abbiamo speso tanti milioni di dollari per mantenerlo, non abbiamo soddisfatto completamente le aspettative dei giocatori e degli spettatori”.
Anche se i suoi cinquant’anni di vita non hanno coinciso con cinquant’anni di US Open, quel campo che misura 20 metri per 37 può vantare tante storie da raccontare. L’ultima in ordine di tempo è quella di Lleyton Hewitt, che sul Grandstand ha giocato il suo ultimo match agli US Open, dopo una bellissima partita durata cinque set in cui l’australiano più esperto stava per portare a compimento una rimonta straordinaria. Si è interrotta sul più bello, ma i fortunati che erano sul campo hanno potuto tributare al campione dell’edizione 2002 la meritatissima standing ovation. E a proposito di rimonte, nel 1993 si giocò un match incredibile nel quarto turno del tabellone maschile tra gli australiani Wally Masur e Jamie Morgan. Dopo aver vinto terzo e quarto set, Masur si trovava sotto 5-0 nel quinto set e con poche chance di completare l’impresa. Nel settimo game, un lob di Morgan scavalcò Masur, che però controllò con sicurezza la parabola. La palla venne chiamata buona e Morgan ottenne il primo match point mentre Masur inveiva contro l’arbitro di sedia. qualcosa scattò nella testa di Masur. “Ormai mi ero rassegnato alla sconfitta. Stavo pensando a casa mia, dato che non ci tornavo da quattro mesi. Ma quella chiamata mi fece rientrare in partita”, disse Masur. Morgan sprecò il match point con un dritto in rete a campo aperto (“Probabilmente di quei dritti ne sbaglio uno ogni cento”) e Masur, che quest’anno allena il team australiano di Coppa Davis, vinse quattro game di fila a zero e finì per vincere il match con il punteggio di 3-6 4-6 6-3 6-4 7-5.
Il Grandstand è anche il campo di alcuni record del torneo, dato che vi sono stati giocati i due tie-break più lunghi della storia degli US Open: quello tra Goran Ivanisevic e Daniel Nestor nell’edizione del 1993 (vinto da Ivanisevic per 20-18) e quello tra Samantha Stosur e Maria Kirilenko nell’edizione del 2011 (vinto dalla russa per 17-15). Non ha più il record della partita più lunga della storia del torneo femminile, però, dato che proprio quest’anno il campo 17 si è preso questo primato con il match di secondo turno tra Garbiñe Muguruza e Johanna Konta, durato tre ore e ventuno minuti. Sempre nell’edizione del 2011, il Grandstand venne utilizzato per una delle due semifinali (quella tra Stosur e Angelique Kerber). L’USTA fu costretta a spostare il match dall’Arthur Ashe al campo numero tre perché il Louis Armstrong non era più agibile a quel punto del torneo.
Ma al di là dei record o dei match storici che vi si sono giocati, il Grandstand è il campo a cui gli statunitensi sono più affezionati. Per via delle sue piccole dimensioni, è amato da tutti. È amato dal pubblico, perché gli permette di vedere da vicino i tennisti. È amato dai giocatori, perché possono sentire davvero il calore di chi sta guardando la partita. E anche dai raccattapalle, che sfruttano l’ombra del Louis Armstrong per rinfrescarsi nel Perch, una specie di tribuna in acciaio accessibile a tutti e dove è possibile ascoltarli mentre si lamentano della scortesia di uno spettatore o fare gossip su qualche frase che hanno potuto sentire da una posizione privilegiata.
Nel 2009, appena sei anni fa, il Grandstand si trasformò in macchina del tempo. Taylor Dent, numero 195 del mondo, batté al quinto set Ivan Navarro in un match durato cinque set e finito 6-4 5-7 6-7(1) 7-5 7-6(9): su 376 punti, 255 vennero giocati a rete ed entrambi i giocatori conclusero ciascun set con un saldo positivo tra vincenti ed errori non forzati. Ancora oggi, Dent ricorda quel match con particolare emozione: “È la partita di cui tutti mi parlano quando mi incontrano: ‘Hey, mi ricordo quel match con Navarro, mi sono divertito tantissimo’, mi dicono. È sicuramente uno dei match che porterò con me per sempre”. Le dimensioni ridotte del campo, dice Dent, contribuirono a formare quell’anacronistica atmosfera per una partita giocata quasi esclusivamente a rete: “Ti sembra che il campo sia più piccolo, per cui ti avvicini spontaneamente alla linea di fondo campo. I punti erano velocissimi e gli scambi molto corti e questo ha ovviamente agevolato chi preferisce giocare con il serve-and-volley”. Proprio il contrario dell’Artur Ashe, dove sembra quasi di non essere al tennis – come si dice a NYC – tanto alti sono i suoi anelli: puoi chiacchierare amabilmente, rispondere al telefono oppure camminare per stiracchiarti e i giocatori non avranno la minima contezza dei tuoi movimenti. Al Grandstand è stata tutta un’altra storia, per quasi quarant’anni. Le partite storiche ospitate da questo campo non moriranno con la sua scomparsa ma continueranno a vivere nei ricordi di chi le ha vissute a bordocampo, nell’attesa che il nuovo Grandstand ne regali altre da raccontare ai propri figli, così come faranno Taylor Dent e Ivan Navarro.