Abbiamo problemi con la gente.
By Giulio Fedele Posted in monografie on 8 Settembre 2017 7 min read
Il giornalista statunitense abbassa gli occhiali sulla punta del naso, schiarisce la voce e con tono caldo e riflessivo esordisce: «Nel corso di queste semifinali americane, le tue avversarie ti hanno riempito di complimenti. So che questa sconfitta deve bruciare, ma nelle parole di queste giovani giocatrici, che speriamo possano rappresentare un numeroso gruppo di campionesse americane, c’è una sorta di consolazione?». Mentre scuote la testa, lo speaker allarga le braccia cercando di far arrivare a Venus Williams, che aveva appena perso la semifinale degli US Open, tutta l’ammirazione sua e di chi la guarda giocare da oramai vent’anni. Allora Venus sgrana gli occhi, li sbatte rapida come un colibrì per un paio di volte, alza il mento e genuinamente ribatte: «Che vuol dire?». Il giornalista è più stupito di lei, la sua domanda non sembrava richiedesse chissà quale sforzo interpretativo. Frasi come “È fantastico essere d’esempio per le giovani generazioni”, “Gioco a tennis anche per questo”: qualsiasi risposta che comunicasse un filo di empatia, qualsiasi frase prefabbricata sarebbe andata bene, anche solo per riempire le righe del trafiletto d’elogio del giorno dopo.
Venus aveva appena dribblato (consapevolmente?) la domanda. «Cioè…», biascica il giornalista in affanno cercando di reimpostare il quesito in termini meno fraintendibili «…le giocatrici che sono in semifinale ti devono mol…» ma Venus decide di interromperlo e col candido sorriso di chi rivela una verità tanto saggia quanto scontata: «Francamente? Io sono qui per vincere i miei match e non per avere qualche consolazione». Il giornalista è confuso, ma non vuole mollare l’osso. Venus Williams, la vincitrice di sette titoli del Grande Slam, modello di molte ragazze, stella del tennis professionistico, deve dire al mondo quanto sia appagante rivivere attraverso i sogni delle nuove generazioni. «Ti piace essere fonte di ispirazione», riprende la parola il coraggioso reporter, con il fare di chi cerca assenso «per queste ragazze, che attribuiscono a te e ai tuoi successi la loro motivazione?». Venus gli fa eco e, come se preferisse accordargli ragione, ma con dichiarazioni equivoche per lasciare spazio all’interpretazione, secondo le regole dei litigi fra fratelli, risponde: «…è sicuramente bello sentirlo dire».
Venus Williams è, a buon ragione, considerata una leggenda del tennis. E non per la longevità della carriera, iniziata nel 1997; non perché a trentasette anni è riuscita a centrare due finali e una semifinale Slam, tornando tra le migliori cinque giocatrici del mondo e con all’attivo il maggior numero di vittorie nei tornei dello Slam dell’intero circuito WTA; non perché è affetta da una malattia autoimmune, la sindrome di Sjögren, e ancora vuole giocare a tennis; non perché, ancora una volta, nonostante l’età, continua a poter battere le migliori del mondo. Venus Williams è un’icona eterea, vaga, inafferrabile.
Sloane Stephens, che l’ha battuta in tre set nella semifinale con il punteggio di 6-1 0-6 7-5, ha preso spontaneamente l’iniziativa per lodarla in una domanda che non la menzionava in maniera esplicita: «Io e Maddie (Madison Keys, l’altra finalista degli US Open), stiamo seguendo le orme di Venus. Lei è stata la rappresentante delle donne afro-americane nel gioco ed io e lei siamo qui per fare lo stesso e ne siamo onorate». Nel 2006, Venus si è messa in prima linea per la lotta a favore del prize money equalitario per uomini e donne nei tornei dello Slam scrivendo su TheTimes una lettera aperta ai Championships, accusandoli di essere dalla parte sbagliata della storia. L’anno successivo, Wimbledon e il Roland Garros accordarono alle donne lo stesso ammontare di montepremi degli uomini.
Quando si parla dell’icona Venus Williams si fa un discorso più complesso, che non riguarda soltanto la tennista, ma la sua intera personalità. Nel 1997, anno del suo esordio a Flushing Meadows, durante la semifinale degli US Open contro la testa di serie numero 11 del tabellone, Irina Spirlea, accadde il famoso incidente dello scontro al cambio campo. Sul punteggio di 7-6 4-3 per l’americana, Spirlea deliberatamente decise di non spostarsi per vedere se Venus a sua volta l’avrebbe fatta passare. Come nella scena dei Promessi Sposi in cui Fra Cristoforo duella con un nobile per la precedenza, così anche Spirlea e Venus si scontrano frontalmente, nell’imbarazzo generale. Spirlea cercò di spiegare l’accaduto come un tentativo di sfidare l’arroganza dell’avversaria: «Non mi sarei mossa. Lei non prova mai a scansarsi. Crede di essere la fottuta Venus Williams!». Vent’anni dopo, possiamo concludere che lo è.
«Molte persone credono che io sia arrogante, e forse lo sono, ma secondo me bisogna essere così. È necessario credere in te stesso quando gli altri non lo fanno. Ecco che allora sei un vincente». Venus Williams gioca a tennis con l’aura di quella che è al di sopra dello sforzo fisico. Sul campo si muove sinuosa, con le lunghe gambe e braccia che la rendono fluida e fluttuante, come se non corresse ma scorresse sul campo, come un liquido che prende la forma del suo recipiente. Venus si mostra al di sopra del tennis quando gioca con gli orecchini, grossi pendenti di metallo dalla forma arrotondata, cerchi dorati che ricordano quelli utilizzati dalle regine africane e che, ingombranti e fastidiosi, sono belli da vedere ovunque tranne che sul campo da tennis.
One-sided earring-equipped Venus is pretty iconic btw. pic.twitter.com/o1w6nfqk6l
— Giulio Fedele (@fedele_giulio) September 6, 2017
Venus ha perso un orecchino nei quarti di finale contro Petra Kvitova
L’alone di divinità che molti fan attribuiscono a Federer, l’esperienza religiosa targata David Foster Wallace, è più invece un attributo di Venus, una dea otiosa, disinteressata al genere umano e intenta a sprecare quante minori energie possibili con il suo gioco aggressivo, cercando il colpo vincente da qualsiasi posizione. Venus esce dalle logiche convenzionali di questo sport e tratta il campo da tennis come fosse il suo regno. Controlla tutto di sé stessa, dalle perline dei lunghi capelli afro che sfoggiava in gioventù – fiera delle sue origini e del suo passato trascorso tra vetri e palline sui campi di Compton – fino ai vestiti con cui scende i campo, che lei stessa disegna e che appartengono alla sua personale collezione EleVen.
E soprattutto, trasmette anche nei piccoli particolari il suo senso di superiorità, di apatia, di leggerezza. Quando le serve l’asciugamano, agita la mano davanti al volto, un gesto freddo che lei ha coniato e che oramai è il segnale convenzionale. Se vince la partita, inizia a danzare come una ninfa, ruotando su se stessa per salutare il pubblico acclamante.
Venus William è riuscita a costruire così bene il suo personaggio che è ancora più straordinario poter sorprendersi di nuovo per la sua dimensione tennistica. Quest’anno, proprio perché oramai la si considera un’icona del circuito, è riemersa invece quella temibile tennista che coniugava grazia e potenza, forza e tecnica. Abbiamo riscoperto che Venus Williams è capace di vincere uno Slam, di tornare tra le migliori al mondo e di giocare da protagonista le prossime WTA Finals. E non come comprimaria della ben più titolata sorella Serena. Il 2017 è stato l’anno in cui la divinità Venus Williams è scesa dall’Olimpo ed è tornata a gareggiare – pardon, a danzare – tra i mortali.