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Two more years (Se due anni vi sembran pochi)

Quando cominciammo tutto questo, di una cosa eravamo certi: non saremmo stati troppo simpatici. Un po’ perché non essendolo nella vita di tutti i giorni ritenevamo improbabile che diventassimo degli allegri giovialoni, cercando nel “però sono bravi ragazzi, meriterebbero di più”, quello che la scrittura e la competenza non sarebbe riuscita a darci; molto perché fin dal primo articolo abbiamo provato a spiegare come uno dei malesseri – forse non il più importante, ma forse – della produzione culturale, foss’anche sportiva, non solo italiana, risiedesse in questo asfittico clima da “siamo in fondo una massa di sfigati, però i lettori sono peggiori” e quindi cosa stiamo a rompere per un congiuntivo o perché non si sa nulla del dritto di Nishikori?

Tutti noi provenivamo da altre esperienze che abbiamo abbandonato per una cosa che ormai non si fa più: per questioni di principio, pensate un po’. Se era pacifico che la stampa tradizionale non aveva più nulla da dire, anche quella che trovava ampia accoglienza sul web era già vecchia senza esser mai stata davvero giovane o matura. Alla disperata ricerca di qualche click in grado di trasformarsi in centesimi di euro abbiamo a lungo assistito, dall’interno, a metodi di lavoro che diventavano via via più sciatti e ci trovavamo a leggere articoli che non avrebbero mai passato il non troppo severo esame di una decente professoressa di lettere di una qualsiasi scuola media nazionale. L’imperativo “pubblica pubblica, qualcosa resterà” produceva il prevedibile effetto di dare vita a una serie di volenterosi appassionati che saltavano il fosso rimanendo ben incollati sul divano di casa: da watcher a doer, ma Sam Felix c’entrava poco.

Ma se questo era il sottostrato popolare, diciamo così, di chi scriveva tennis, le cose non stavano certo meglio negli auto-nominati eredi dei grandi del passato; che nel tennis, come sapete, si riducono a due nomi, Rino Tommasi e Gianni Clerici, conosciuti solo attraverso la televisione. I due, via via che gli anni passano, sono ormai dei monumenti, probabilmente a loro stesso dispetto, anche se un po’ di lusinghe si nutre l’animo umano, e come a volte succede hanno rasentato una sorta di parodia dei bei tempi che furono. A sostituirli però – era questo il problema – non c’era nessuno. Né in televisione, dove gli aristocratici antenati venivano sostituiti da piccoli borghesi con letture conseguenti e ritmi e racconti che ne tradivano la provenienza; né, soprattutto, nella scrittura, completamente desertificata, con esperti di tennis impossibili da seguire oltre la quinta riga che a volte si cimentano con le cronache facendo rimpiangere quando ognuno faceva il suo mestiere.

Con un panorama di questo tipo che senso aveva provare a problematizzare la supposta esperienza statistica di uno e lo stanco reiterarsi dell’altro, vittima di cacciatori di selfie da mettere su Facebook per far vedere agli amici che “Clerici mi conosce”? Che tipo di elaborazione c’era da aspettarsi da parte di gente per cui persino il “ma ragazzo, perché non provi a recitare?” che Laurence Olivier sibilò maligno ad un Dustin Hoffman che faceva chilometri e chilometri per entrare nella parte del maratoneta sarebbe sembrato un vezzo da intellettuali? Così, lettori in cerca di lettura, è stato quasi naturale provarci, ed è stato quasi naturale fare qualcosa di diverso. Convinti che la competenza tennistica non ci mancasse, ma che fosse un requisito abbastanza alla portata di tutti, non ci restava che concentrarci sulla scrittura. Avremmo pubblicato poco ma lo avremmo fatto supponendo di scrivere per noi. Gli articoli sarebbero stati rivisti, corretti, criticati, poi di nuovo rivisti. Ci saremmo rivolti ad altri se avessimo ritenuto di non avere al nostro interno le competenze necessarie, o magari la sensibilità, per trattare un argomento ma l’esterno avrebbe dovuto giocare al nostro gioco, non al suo.

E se “altri” ci è sembrato non fosse in sintonia, la nostra cortesia si è imitata a pubblicare un pezzo e a non chiederne più altri, del resto ci sono tanti posti dove scrivere, inutile farlo anche su Tennispotting. I quasi 400 articoli pubblicati in due anni sono più o meno quanto un normale sito di tennis – di quelli che vanno per la maggiore e vantano migliaia di lettori che commentano sempre la stessa cosa – produce in un paio di mesi. Ma quando li rileggiamo, i nostri articoli, ci viene da ridefinire la famosa frase che chi scrive, con rivedibile snobismo, crede sia molto cool, quella che recita “prima e dopo la scrittura è un tormento, ma durante sono veramente felice”. Ecco, noi siamo contenti più quando ci leggiamo che quando scriviamo e il nostro piacere nel rileggere Il ladro di orchidee oppure Una notte a Bercy rimane intatto, arrivando al punto,  nella nostra vanagloria, di pensare persino di non dovercene vergognare. Siamo convinti che non sono in tanti a poter dire la stessa cosa e in ogni caso ce ne vengono in mente pochi.

In questi due anni ci siamo occupati di tante cose e abbiamo cercato uno stile, che tra noi chiamiamo il “Tennispotting touch”. Il riferimento cinematografico è abbastanza noto, ma in questo compiacimento per la citazione a volte pop a volte dotta; nel cercare sempre una critica anche in pezzi apparentemente innocui; nel provare a raccontare una partita, un giocatore, un evento, cercando un aspetto nascosto; nello svelamento della grettezza che muove non solo il mondo del tennis; nel fare del tennis un modo per parlare d’altro; e in definitiva convinti che lo sport non forma il carattere ma piuttosto lo rivela: tutto questo è il “Tennispotting touch”, che pecca forse di un crepuscolare post-modernismo. Il risultato però è che un nostro articolo lo riconoscereste anche se venisse pubblicato altrove e magari con un’impaginazione dilettantesca oppure in siti con altre potenzialità e lettori rispetto al nostro. Sembra poco? Chissà.

Già, chissà. Perché magari avranno anche ragione i vecchi e giovani inutili cinici a lamentarsi di quanto guadagnano poco e però disprezzare il lettore, offrendogli il proprio livore e pezzi raffazzonati che pensano di giustificare con lo stream of consciousness, atteggiandosi a patetici maudit, ma visto che scrivevamo per i migliori lettori del mondo – o, che è lo stesso, per quelli che davvero ci interessano: noi stessi – abbiamo offerto anche una confezione di pregevole fattura, offrendo agli altri lettori un rispetto del tutto irrituale. Implicitamente chiediamo loro una partecipazione consapevole, che vada un po’ oltre la pigrizia intellettuale e la semplice ignoranza del “con i numeri si può dire tutto” e l’orribile “tutte le opinioni vanno rispettate”.

Tutto questo è stato Tennispotting, e gli autori che si sono avvicendati hanno sì mantenuto un loro riconoscibilissimo stile ma ci sembra siano riusciti anche ad entrare nello spirito con cui volevamo fare questo sito. E anche se comprendiamo meglio di tutti i rischi che corre chi si loda eccessivamente è per noi difficile celare la soddisfazione per il lavoro fatto fin qui. Abbiamo raccontato partite come nessuno, tornei come nessuno, spiegato in un italiano comprensibile e senza forzare il parere dei tecnici la questione del doping, quando inviati vi abbiamo offerto racconti invece che come veniva sciupata una palla break, non ci siamo piegati al reducismo degli anniversari, se non avevamo nulla da dire lo abbiamo detto come nessuno avrebbe pensato di dirlo, e seppur non indifferenti ai ritorni dei dioscuri non ci siamo trasformati in venditori di tappeti per nascondere lo stato balordo del tennis contemporaneo.

In mezzo e oltre vi abbiamo raccontato che il tennis non è poi così bello come lo si dipinge e della malinconica mania dei tennisdipendenti; dell’assurdo modo con cui viene affrontato in televisione e dell’ancora più assurdo modo con cui viene gestito da una Federazione ridicola, persino di più dei suoi avvilenti difensori. Insomma, ognuno dei 335 articoli ha una storia alle spalle, anche quelli meno riusciti. A due anni di distanza non è tanto il caso di fare troppi bilanci. È vero che attorno a noi lo sbracamento non è certo diminuito, e di puntini di sospensione e ridicoli giochi parole da terza elementare son pieni ormai titoli e frasi, ma ci sembra anche vero che a volte si intravede qui e lì qualcosa che vale la pena leggere. Questo ci ha indotto ad un lungo conciliabolo sul futuro di Tennispotting, che però dipende anche dalle nostre forze. Com’è facilmente intuibile, nessuno qui dentro si occupa prevalentemente di tennis, ma è invece occupato in altre faccende. Ne deriva che, per quanto ci piacerebbe proporre più articoli, il futuro di questo sito assomiglierà molto al suo passato e al suo presente. Ciò non significa che non proporremo pezzi che ci piace pensare innovativi, ma che l’essenza di fondo di Tennispotting non cambierà: continueremo a seguire il tennis da una collina appartata, dedicandoci delle righe quando ci parrà giusto dedicarci del tempo, tacendo se quello che accade non ci sembrerà rilevante o degno di essere raccontato.

La nostra indipendenza/indifferenza ai click ci piace ma come non può che essere – saremmo mediocri osservatori di quello che abbiamo attorno se ci stupissimo – non è fatta né per attrarre né per renderci particolarmente forti. Dopo due anni esatti abbiamo però capito che Tennispotting aveva bisogno di una rinfrescata, non nella sostanza, ma nella forma, ché pure quella conta. Ed è per questo che abbiamo abbandonato la via vecchia per quella nuova, almeno per quanto riguarda la struttura grafica del sito. Se prima i pezzi erano ordinati secondo un solo criterio, quello cronologico, ora i contenuti, pur rispettando l’ordine temporale, sono ordinati anche per categoria. I nostri articoli, spesso e volentieri, non “scadono”, come si suol dire, ed è per questo che abbiamo cercato una struttura che ci permettesse di tenere in homepage i pezzi a cui siamo rimasti affezionati, quelli che vale la pena rileggere per qualche particolare motivo oppure quelli che i nuovi lettori non hanno avuto l’occasione di leggere. Borges diceva che far della buona letteratura non è poi così difficile, trovare qualcuno che scriva bene e che abbia davvero delle cose da dire pare sia tutta un’altra faccenda. E siamo troppo pochi per poterci permettere chissà quale sortilegio. Quindi faremo quello che ci sembra di saper far, migliorare e continuare a raccontare quello che vediamo, convinti che si può girare il mondo senza mai vedere niente e restare a casa scrivendo La tigre della Malesia. E se è tennis pazienza.


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