Abbiamo problemi con la gente.
By Claudio Giuliani Posted in spotting on 24 Agosto 2017 11 min read
Ogni giorno un telecronista si alza e sa che dovrà pronunciare “pazzesco” almeno cento volte durante la sua giornata di lavoro. Solo così lo spettatore sintonizzato sul tennis potrà ritrovarsi nella sua comfort zone, inebetito a suon di pazzesco di fronte a un ordinario pazzesco passante di rovescio, a un normale pazzesco recupero, una bella pazzesca stop volley e un potente pazzesco dritto chiuso da fondocampo.
pazzésco agg. [der. di pazzo] (pl. m. -chi). – Proprio, tipico di un pazzo, da pazzi, detto di cose che sono o sembrano irragionevoli, assurde, insensate
Di stretta derivazione dall’aggettivo di cui sopra, “incredibile” è la versione più seria del commento del punto. Non siamo più nel campo della pazzia, della follia di gente che, pazzescamente appunto, colpisce in maniera insensata la pallina da tennis. Qui entriamo nell’ambito del surreale o chissà, forse del divino, e cioè del vedere cose che non ci sono e di credere, se stiamo di fronte al tubo catodico, che stiano succedendo veramente. È come lo sbarco sulla luna: o ci si crede o è roba inscenata a Hollywood. E allora il rovescio di Wawrinka chiuso lungolinea è incredibile, quando lo sarebbe se a farlo fosse Tsonga, uno che dopo 30 anni di tennis colpisce di rovescio come un terza categoria; è incredibile il dritto vincente di del Potro chiuso in anticipo, quando lo sarebbe se fosse Paire ad averlo colpito così, ed è incredibile la volée di rovescio messa all’angolo da Federer, uno che esegue questo colpo così bene da una ventina d’anni circa e risulta, appunto, ancora incredibile. Incredibile, no?
incredìbile agg. [dal lat. incredibĭlis]. – 1. Non credibile, difficile a credersi; è per lo più riferito, spesso con valore iperbolico, a cosa che, per essere straordinaria, eccessiva, singolare, quasi non può essere creduta
“Approda così agli ottavi scavallando un ostacolo”, “ha passato le qualificazioni a Melbourne e all’open d’Australia ha scavallato…”, “scavallare i primi turni con meno fatica”, “nel quinto set scavallando 5 match point e nove falli di piede”; (bonus: “I terroristi dell’Eta misero tanto esplosivo sulla strada che l’auto saltò così in alto da scavallare il palazzo di fronte”). Che siano palazzi o matchpoint, qualificazioni o giocatori, la vita oggi si vive a cavallo. In questo pazzesco e incredibile percorso che è la vita, tutto si scavalla e niente ci ferma.
scavallare v. intr. e tr. [der. di cavallo, col pref. s- (nei sign. 5 e 3)]. – 1. intr. (aus. avere) a. Correre, sfrenarsi, spec. con riferimento a ragazzi che giocano: hai scavallato tutto il pomeriggio, adesso torna a casa. b. Vivere in modo sregolato; divertirsi, correre la cavallina: in gioventù abbiamo scavallato un po’ tutti. c. Lavorare duramente, faticare, essere in moto continuo per ragioni di lavoro: scavallava tutto il giorno, infaticabile, in Trastevere (Morante). 2. tr., ant. a. Scavalcare, buttare giù da cavallo: Così Teseo fieramente andando Co’ suoi compagni infra le donne ardite, Molte ne gian per terra scavallando (Boccaccio). b. fig. S. qualcuno, farlo cadere in disgrazia. 3. tr. Con sign. affine a scavalcare, in usi region., di elementi di un congegno che escono dalla guida o dalla sede naturale: la cinghia ha scavallato la puleggia (o anche, come intr., è scavallata dalla puleggia).
Sarà che serve una superficie compatta per avere rimbalzi regolari, di certo l’asfalto ha ricoperto tutti i campi da tennis del mondo. Si asfalta sul cemento, e vabbè, facile direte, ma si asfalta anche sulla terra battuta e, si tengano forte i più sensibili al tema ambientale, financo sull’erba. Ché poi, mica serve avere l’expertise: chiunque può improvvisarsi asfaltatore. Vincere con un punteggio netto e in maniera convincente non rende bene l’idea: asfaltare sì. Speriamo che, dopo l’asfaltatura, si ricordino anche di tracciare le righe. Altrimenti tocca andare a occhio.
asfaltare v. tr. [der. di asfalto]. – Coprire di asfalto; eseguire l’asfaltatura: a. una strada, una piazza. ◆ Part. pass. asfaltato, anche come agg.: strada asfaltata.
“Federer sul velluto” è un classico. L’idea che abbiamo del velluto è che sia un tessuto morbido, ma sono morbidi anche la seta, il cotone e la lana. Allora perché usano la parola velluto? Forse perché è un tessuto liscio (ma anche gli altri lo sono, a patto di stirarli) e quindi il concetto che si vuole comunicare è che Federer ha vinto un “match liscio”, sperando che non si intenda il ballo.
vellùto s. m. [uso sostantivato dell’agg. precedente]. – 1. Tipo di tessuto di aspetto caratteristico per gli anelli o sfioccature in rilievo su un tessuto di fondo: v. di seta, di cotone, di lana; v. per abiti, per tappezzeria, per tendaggi; v. liscio; v. a coste, detto anche v. alla cacciatora(o, con termine francese, chasseur), perché adoperato soprattutto per abiti da cacciatore; v. verde, rosso, nero; tende, cortine di v.; poltrone tappezzate di v.; vestito, giacca, pantaloni, bavero, risvolti di v.; per estens., vestire, essere vestito di velluto, con abiti di velluto.
“Federer in carrozza” è l’alternativa a “Federer sul velluto”. Generalmente, si cerca di alternare le due dizioni fra giorni pari e dispari, per darsi un metodo. Crediamo che il significato sia che Federer ha vinto senza fare niente, e cioè che la partita sia stata una vittoria arrivata in maniera facile, come se voi doveste arrivare a comprare le sigarette a piedi ma invece vi ci portassero in carrozza: più facile, no? Certo, l’ideale sarebbe una carrozza con interni foderati in velluto. Potremmo arrivarci, abbiate fede.
carròzza s. f. [der. di carro]. – 1. Veicolo a quattro ruote tirato da uno o più cavalli, di forme varie (con o senza mantice, o chiuso a berlina), per trasporto di persone: c. padronale; c. di gala; c. chiusa; c. scoperta; c. a quattro, a sei posti; andare in c.; prendere a nolo una c.; spesso assunta come simbolo di ricchezza, di benessere economico: quella è gente che può andare (o marciare) in c., che può far vita signorile; fig., andare in paradiso in c., guadagnarsi il paradiso o, in genere, raggiungere qualche fine senza troppa fatica
Non si perde da, si perde contro, semmai con, se proprio non si digerisce il conflitto. Si perde qualcosa, non si perde da qualcosa. Pronunciata in tv o letta da qualche parte, non fa differenza: è sbagliato e non basterà di certo la giustificazione “eh oramai è uso comune, quindi si può dire” a cambiare l’uso di questo verbo. Il “perdere da” è un po’ il “piuttosto che” applicato all’italiano delle cronache sportive, un misto di pigrizia e ricercatezza che continua a conquistare nuovi adepti ogni giorno.
pèrdere v. tr. [lat. perdĕre, comp. di per-1, indicante deviazione, e dare «dare»] (pass. rem. pèrsi o perdètti [meno com. perdéi], perdésti, pèrse o perdètte […] avere più la presenza, la compagnia, e sim., di una persona, in seguito a cause varie: perdere un amico, perché è morto, o si è allontanato, o anche perché è cessata l’amicizia;
Che lottare sia un verbo lo sappiamo, e lo sanno anche i nostri commentatori. Che sia però intransitivo lo si ignora (oppure si ignora il significato di intransitivo, fate voi). E quindi raramente leggerete frasi come “Federer ha lottato contro Nadal”, ma strabuzzerete gli occhi di fronte a “Federer in una partita lottata”. La partita non lotta da sola, servirebbe un avversario per dare senso alla frase. Solo che spesso l’avversario di questi commentatori è l’italiano.
lottare v. intr. [lat. lŭctare, lŭctari] (io lòtto, ecc.; aus. avere). – Fare alla lotta, come gara agonistica: l. a torso nudo; ha lottato con i maggiori campioni europei riuscendo sempre vincitore.
Letteralmente, “letteralmente” significa “lettera per lettera”, “testualmente”. Cioè se uso questo aggettivo associato ad un termine, intendo utilizzare quel termine nel suo senso letterale, non in quello traslato. Ma, nel più ironico dei rovesciamenti semantici, “letteralmente” è diventato un termine che viene utilizzato spessissimo per aggettivi intesi in senso metaforico. Per cui, quando leggiamo che Pliskova ha “letteralmente annichilito” Wozniacki, non dobbiamo preoccuparci delle sorti della povera Caroline, che avrà soltanto perso in maniera netta il suo match. Oppure, se Isner ha “letteralmente bombardato di missili” il tapino Mannarino, state pur certi che John, che pure è un bravo ragazzo, non ha contattato il suo presidente per disfarsi del suo avversario.
letterale (ant. litterale) agg. [dal lat. tardo litteralis]. – 1. a. Che riguarda la lettera di uno scritto, che si attiene cioè al significato più ovvio e per così dire esterno delle parole, in contrapp. allo spirito, cioè al significato riposto, o, in altri casi, al senso allegorico
(Murray) “avrà nello Us Open l’unica occasione per intascare punti in vista del finale di stagione, dove avrà una montagna di risultati da difendere”. Quindi, secondo questo articolista, Finale di stagione è una città che voi potete tranquillamente visitare. Occhio però all’abbigliamento: è una città di montagna, fa parte della catena montuosa degli Alti Risultati. È così oramai: i commentatori di tennis sono dei novelli Cristoforo Colombo, scopritori di luoghi immaginari come Semifinale (“in semifinale, DOVE incontrerà X”), come Settembre (“ci proverà a settembre, dove potrà allenarsi”) o come Game (“il game dove ha mostrato che”), ubicata vicino Las Vegas presumiamo.
dóve avv. [lat. de ŭbi; v. ove] (radd. sint.). – Serve a domandare o a determinare un luogo. Introduce in genere prop. interrogative dirette o indirette, oppure prop. relative, unendosi con verbi di quiete e di moto.
Uno dei feticci dei nostri commentatori è il verbo “operare”, spesso per segnalare un cambiamento nell’andamento (o inerzia, se preferite) della partita. Si opera un break così come si opera un allungo, si opera un sorpasso come si opera uno strappo – e magari fosse uno strappo muscolare. Caviglie, ginocchi, spalle e polsi: sarà che il fisico del tennista è fragile, sarà che il verbo ha una connotazione chirurgica, fatto sta che le cronache e le telecronache sono un concentrato di suture e incisioni. E i punti centrano ben poco, in questo caso.
operare (ant. o poet. oprare; ant. ovrare) v. intr. e tr. [lat. operari «lavorare, essere attivo», der. di opus opĕris «opera, lavoro»] (io òpero, ecc.; come intr., aus. avere). – 1. intr. a. Agire
A dire il vero, “quant’altro” è un problema che va ben oltre l’orticello del mondo tennistico. Si tratta di una locuzione polverosa, che è stata risuscitata, indovinate un po’?, dal giornalese degli anni ‘90. “Quant’altro” è un burocratismo da robivecchi dell’italiano, eppure negli ultimi vent’anni è riuscita a tornare in auge grazie ad uno di quei circoli viziosi che si autoalimentano senza un particolare motivo e senza dei veri responsabili. Grammaticalmente parlando, “quant’altro” significa “tutte quelle cose che”: è una locuzione relativa che quindi introduce un elemento e che di certo non può essere utilizzato al termine di una frase come succede oggi. Ma i sentieri dell’italiano, specie quando intervengono “Corriere” e “Repubblica” sono infiniti: e così oggi “quant’altro” è diventata una specie di variante dotta di “eccetera”. Non poteva certo esimersi il commentatore di tennis, che lo usa con enorme soddisfazione per terminare in bellezza un elenco.
Al giorno d’oggi, è il “power tennis” a comandare. Ed è per questo che quando leggete una cronaca avrete la netta sensazione di leggere un bollettino di guerra. No, non è neo-futurismo: è semplicemente pigrizia e inutile enfasi. E così del Potro ha bombardato col dritto (“mettendo a referto 12 vincenti”: ma quale referto?), mentre Djokovic ha fatto partire dei missili dalla sua racchetta. Kvitova ha sparato 13 ace mentre Serena Williams ha fatto esplodere i suoi vincenti. E che dire di Gulbis, che ha scagliato 6 rovesci vincenti in un solo game? Certo, c’è anche chi rimane su un livello più puro, e si limita a sferrare il colpo di grazia per non far soffrire ulteriormente il proprio avversario: ma di questi tempi, purtroppo, le leggi della cavalleria si dimenticano in fretta.