Abbiamo problemi con la gente.
Ventiquattro anni fa Jim Courier, numero uno del mondo, scendeva in campo di sabato per il suo incontro di terzo turno di Wimbledon contro Andrei Olhovskyi. Courier era un tennista americano atipico, perché sulla terra rossa si trovava più che bene, mentre sull’erba il suo gioco paziente e ragionato diventava meno efficace. Quell’anno però aveva un motivo in più per far bene a Londra: avendo vinto sia agli Australian Open che al Roland Garros, lo statunitense era ancora in corsa per il Grande Slam. Per dare l’idea della difficoltà di vincere Australian Open e Roland Garros nello stesso anno basti pensare che né Sampras, né Federer, né Nadal ci sono mai riusciti in carriera – per motivi molto diversi, certo. Novak Djokovic c’è riuscito quest’anno con Nadal e Federer ben lontani dal loro zenit. Eppure, proprio come Courier nel 1992, Djokovic non giocherà nella seconda settimana di Wimbledon. Ad Olhovskyi, dopo la clamorosa vittoria contro Courier, chiesero come aveva fatto a batterlo. «Non lo so», disse candidamente il russo.
È bastato un poco di Querrey
Presentando il torneo avevamo detto che per battere Djokovic a Wimbledon serviva il match perfetto al servizio e che forse nemmeno quello sarebbe bastato. Avevamo anche detto, però, che il serbo arrivava scarico mentalmente dopo la vittoria di Parigi e che stavolta non avrebbe trovato la chiave per rimontare l’Anderson di turno. Sembra un paradosso, ma le dolorose sconfitte nelle finali di Parigi del 2014 e del 2015 hanno aiutato Djokovic a giocare lo Slam londinese senza cali di tensione nervosa. La vittoria del Roland Garros di quest’anno, al contrario, ha spazzato le tante nubi che hanno affollato la testa di Djokovic negli ultimi anni ma al tempo stesso hanno fatto abbassare il livello di guardia: più che normale, quando si è abituati a vincere sempre, anche quando il gioco non va.
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