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Lo sgambetto

Quel sabato pomeriggio del 1992 in cui il numero 1 del mondo, campione in carica di Australian Open e Roland Garros, perse contro il numero 193 del mondo a Wimbledon.

Quel sabato pomeriggio del 1992 in cui il numero 1 del mondo, campione in carica di Australian Open e Roland Garros, perse contro il numero 193 del mondo a Wimbledon.

«Come ci sei riuscito, Andrei?»
«Non lo so».

Il tennis, al netto di alcuni impercettibili aggiustamenti che si possono adottare, è uno sport abbastanza semplice. Si gioca uno contro uno, spesso e volentieri contro avversari di cui si conosce ogni forza e ogni debolezza. Ci possono essere delle varianti, ovviamente: la superficie, la condizione fisica, magari il pubblico. Ma non c’è molto spazio per la tattica e non ci può inventare granché per sorprendere il proprio avversario. Non è quindi molto sorprendente che Andrei Olhovskiy, numero 193 del mondo, non sapesse spiegare la sua vittoria al terzo turno di Wimbledon 1992 contro Jim Courier, allora numero 1 e campione in carica degli Australian Open e del Roland Garros. Per oltre vent’anni nessuno è riuscito a vincere i primi due Slam dell’anno: non c’è riuscito Pete Sampras, allergico alla terra battuta e non c’è riuscito Roger Federer, allergico a Rafael Nadal; nemmeno lo spagnolo, però, ha mai potuto competere per il Grande Slam, dato che ha vinto gli Australian Open solo una volta, nel 2009, lo stesso anno della sua prima sconfitta al Roland Garros. Jim Courier, invece, ci riuscì con un gioco decisamente inusuale per uno statunitense. Jim, al contrario di Sampras, pur essendo piuttosto alto e dotato di un servizio più che discreto, preferiva scambiare pazientemente da fondo ed infatti sulla terra battuta giocava a meraviglia. A Wimbledon, invece, non si trovava molto a suo agio, anche se nel 1991, l’anno del suo primo Slam, aveva raggiunto i quarti di finale perdendo contro il futuro campione Michael Stich.

Di Andrei Olhovskiy, che era arrivato al terzo turno di Wimbledon partendo dalle qualificazioni, non si sapeva poi molto. E anche se aveva già dimostrato di giocare molto bene sull’erba, avendo raggiunto gli ottavi nel 1988 e il terzo turno da lucky loser l’anno prima, nessuno riusciva ad ipotizzare che questo russo appassionato di scacchi potesse davvero catturare il re. Quell’anno, per esempio, aveva giocato prevalentemente nel circuito minore dei challenger e il suo cammino a Londra era stato tutt’altro che agevole. Nelle qualificazioni aveva dovuto lottare contro un tennista cubano, Mario Tabares, numero 250 del mondo, sconfitto solo 9-7 al quinto. E pure al primo turno, stavolta contro un qualificato, aveva dovuto giocare cinque set. Che Olhovskiy potesse davvero impedire un ottavo da sogno tra Courier e John McEnroe, allora 33enne e in tabellone grazie ad una wild-card, sembrava fantascienza.

Il gioco del russo, ad ogni modo, era perfetto per l’erba. Cresciuto nel centro sportivo dell’Armata Rossa a Mosca con campi da tennis in legno, Olhovskiy non aveva molta difficoltà a gestire i rimbalzi veloci e imprevedibili del Campo Centrale di Wimbledon. Il suo gioco aggressivo si basava sui due fondamentali che meglio si sposavano con lo Slam londinese, almeno negli anni ’90: un buon servizio e delle ottime volée, quelle che invece mancavano a Courier. Perso il primo set, lo statunitense era riuscito a trovare il modo di rispondere ai servizi del suo avversario, non particolarmente potenti ma estremamente efficaci. Il 6-4 del secondo set a favore del numero 1 del mondo, però, fu soltanto una parentesi all’interno di un monologo. Olhovskiy, infatti, non arretrò di un centimetro e continuò a far giocare il suo avversario nel peggior modo possibile, costringendolo a scambi brevi e poco combattuti. Non è un caso che il break point che decise il match fu una volée comoda a campo aperto mandata clamorosamente in rete da Courier. Uno dei tanti, comunque, visto che a fine partita il conto degli errori non forzati arrivò a 72: «Mi ha surclassato», disse Jim. Era la prima volta nell’Era Open che un qualificato riusciva a battere il numero 1 del mondo in uno Slam.

I giornali statunitensi, ovviamente, dedicarono ampio spazio alla storia di Andrei Olhovskiy. Non solo si allenava nel circolo dell’Armata Rossa, lo stesso dello scacchista Gary Kasparov, ma aveva anche rilasciato varie dichiarazioni molto critiche nei confronti dell’Unione Sovietica, per la gioia della stampa: «Prima giocavo solo per il mio Paese, oggi gioco per me stesso. Non potevo tenermi i miei guadagni e non potevo organizzare il mio programma fino a gennaio». Ma anche se Olhovskiy riuscì a liberarsi del giogo della federazione sovietica, la sua carriera non decollò come forse si augurava: quel giorno il russo visse l’acme della sua carriera e quella contro Courier rimase l’ultima vittoria contro un top 10. Giocherà fino al 1997, vincendo due titoli minori in singolare e venti in doppio. Ma non salirà più alla ribalta delle cronache, come in quel sabato di fine giugno. Nel 1995, come spesso accade a questi tennisti, riuscì a farsi notare in Coppa Davis vincendo in doppio con Kafelnikov i tre doppi contro Belgio (agli ottavi), Sudafrica (ai quarti) e Germania (in semifinale). Ma in finale, contro gli Stati Uniti di Sampras, Martin e ovviamente di Jim Courier, il miracolo non si ripeté.

La carriera di Jim, nonostante quella brutta sconfitta, continuò ad andare più che bene, invece. Riuscì a chiudere l’anno da numero 1 del mondo, l’anno successivo vinse di nuovo in Australia ma non riuscì a bissare la doppietta, perdendo in finale al Roland Garros contro Sergi Bruguera in una partita molto combattuta, durata cinque set. A sorpresa arrivò in finale pure a Wimbledon, la sua ultima in uno Slam, perdendo in quattro set contro Sampras. Aveva 23 anni, ma la migliore parte della sua carriera si chiuse con quella finale. Negli anni successivi raggiunse qualche semifinale Slam ma nei tornei più prestigiosi non si fece più vedere. Il suo 1993 si chiuse al Masters con tre sconfitte nel round robin, nonostante fosse la testa di serie più alta del suo gruppo. Al cambio campo durante il suo secondo match del torneo, contro Andrei Medvedev, Courier si mise a leggere “Maybe the Moon”, un romanzo di  Armistead Maupin uscito l’anno prima. Perché stavi leggendo un libro, Jim? «Perché mi andava». A volte, non si riescono a spiegare le proprie azioni, aveva ragione Olhovskiy.

Andrei Olhovskiy Jim Courier Wimbledon


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