Abbiamo problemi con la gente.
By Daniele Vallotto Posted in tennishipster on 21 Giugno 2016 15 min read
Se c’è una categoria di tornei che il tennishipster odia particolarmente, è quella degli ATP 500. Gli Slam fanno storia a parte: sono tornei antichissimi e abbastanza democratici seppur vincano sempre gli stessi e poi non hanno quei plutocratici bye ai primi turni. Gli ATP 250, pur avendo formule discutibili, si giocano su città che fanno palpitare il cuore del nostro fanatico: San Pietroburgo, Montpellier, Zagabria, Quito, Istanbul. Come non emozionarsi quando il torneo di Båstad annuncia le wild-card o quando a San Paolo arriva in finale uno come Luca Vanni? I Masters 1000 sono tornei arroganti e autocratici che favoriscono sempre gli stessi e si giocano il più delle volte in città caotiche e banali come Parigi e Shanghai, ma almeno qualche volta permettono che avvengano storie come quella di Jerzy Janowicz. Gli ATP 500 sono nella terra di mezzo: troppo piccoli per potersi permettere di essere arroganti, troppo grandi per potersi considerare di nicchia, questi tornei da parvenu si giocano il più delle volte in città nobili e decadute come Amburgo e Barcellona, oppure in nuovi centri del turbocapitalismo più sfrenato, come a Dubai. Tuttavia, è piuttosto singolare che accanto a città come queste si trovi un piccolo paese tedesco di ventimila abitanti che molti in Germania nemmeno conoscono: Halle.
Prendere la sofferta decisione di andare in questo piccolo paese della Vestfalia non è stato affatto facile: il tennishipster preferisce i Challenger, ovviamente, e non di rado si leva lo sfizio di guardarsi nella più totale solitudine un quarto di finale a livello Futures. Qualche volta, è vero, lo disturbano i genitori dei tennisti che sta ammirando oppure, più raramente, dei suoi simili, con i quali il nostro preferisce non familiarizzare troppo per non vedersi costretto a rivelare la futura promessa del circuito junior. Tuttavia, un rapido sguardo all’entry list del contemporaneo torneo del Queen’s gli è bastato per decidersi: da una parte c’è mezza top 10, dall’altra purtroppo c’è quello svizzero che si diverte a sconfiggere spesso e volentieri i prediletti del tennishipster ma poco altro che possa convincerlo a rinunciare al torneo. Perfino Nishikori e Berdych, pur con la loro inspiegabile cocciuttagine nel voler restare tra i primi dieci, cominciano a suscitare un po’ di simpatia nel nostro, perché l’abituarsi a perdere ogni volta sul più bello assume quei contorni di malinconica accettazione del reale che il tennishipster non può non comprendere. E poi, a stare ben attenti – qualità nella quale l’alternativo del tennis deve per forza eccellere – nell’entry list di Halle c’è un nome che molti avranno ignorato, ma che lui invece ha cerchiato in rosso con il fedele pennarello: Florian Mayer.
Quando il tennishipster ha letto che gli organizzatori del torneo di Halle non avrebbero dato una wild-card al prediletto tra i suoi prediletti, preferendo riservarle a tennisti tipo Dustin Brown, il nostro ha avuto un sussulto di orrore: non lo sanno che i rasta sono passati di moda da mezzo secolo? Ma del resto, realista com’è, sa anche che prendersela con i poteri forti è tanto deleterio quanto inutilmente faticoso. A che serve prendersela, si dice il tennishipster, con un mondo che premia solo le pailletes? A quelli come noi, continua a ripetersi in un monologo interiore, la vita ha riservato poche gioie intervallate da lunghi momenti di delusione. Mayer lo sa bene ed è per questo che ha deciso di entrare in tabellone con il ranking protetto, unico stratagemma che il sistema ha concesso agli sfortunati per dar loro l’illusione di avere le stesse possibilità degli altri.
Quando arriva nella stazione di Bielefeld, la città più vicina ad Halle nella quale pernotterà, il tennishipster capisce perché quello strano popolo è solito dire che Bielefeld non esiste. In centro ci sono solo negozi che vendono abbigliamento di scarso valore e catene di ristorazione che promettono tanto e danno ben poco. Il tennishipster si ferma allora in un piccolo negozio bio che sembra proporre la copia più verosimile ad un espresso italiano, ma quando avvicina le sospettose labbra al bicchiere di carta riciclata capisce già che cosa lo aspetta: una brodaglia dal sapore acido e pungente che fatica a stento a mandar giù. Mentre maledice la Germania e la sua assenza di cultura gastronomica, il sofisticato tifoso del tennis underdog paga il conto della sua fiducia e preferisce lasciare al cestino il resto del caffè. Si avvia così sconsolato verso la stazione di Bielefeld e acquista un biglietto per arrivare al Gerry Weber Stadion: la stazione dista circa 15 kilometri e purtroppo non ha portato la sua fedele bici da corsa vintage. Poco male, si dice, mentre accende il Kindle e comincia la lettura del libro di Kent Haruf che ha acquistato qualche giorno prima di partire.
Il giovedì è giorno di ottavi, ma Florian ha già giocato. O meglio, ha non giocato, perché Kei Nishikori ha deciso di fare un favore al pubblico e soprattutto a sé stesso, levandosi di torno prima che Mayer lo spazzasse via a suon di dropshot e rovesci in salto. Per cui il giovedì è un giorno di transizione: mentre mangia un pretzel e sorseggia una birra locale – ogni tanto ci si può concedere al nazionalpopolare, basta non esagerare – il tennishipster si guarda quello che resta del programma tra uno sbadiglio e un appunto sulla sgualcita Moleskine. Non male il doppio dei fratelli Zverev, ma chi ha voglia di tifare assieme al pubblico? Discreto il doppio Cabal/Farah, vuoi vedere che porteranno a casa la medaglia olimpica? Tutto a un tratto un boato scuote il campo n.1, il cosiddetto campo secondario (tsk). Il tennishipster, che si era quasi appisolato mentre controllava sul suo smartphone la data di uscita del nuovo album dei Glass Animals, si scuote all’improvviso, ma ancora prima di spaventarsi ha già capito che cos’è successo: è entrato in campo – non in quello dove si trova lui, quell’altro – il Divin Ciuffo, il Tiranno, il Re Sole del circuito ATP, che pure nel crepuscolo della sua carriera riesce ad oscurare tutto quanto gli sta attorno. Quando il programma del doppio finisce, il tennishipster può già levare le tende senza preoccuparsi troppo di quello che sta succedendo nel resto del torneo. Passando accanto allo stand dell’ATP nota la pomposa classifica che recita “Race to London”. Poveri di spirito: come se ai tennisti con una certa integrità mortale interessasse davvero quel torneo riservato alle élite!
Il giorno dopo è finalmente il Grande Giorno. Gli organizzatori del torneo di Halle hanno deciso di far concludere il programma del cosiddetto campo centrale a Flo e ad un tennista molto fastidioso che ha sconfitto più volte il beniamino del tennishipster, Andreas Seppi. Apparentemente, la scelta di mettere Mayer a fine giornata potrebbe sembrare una sorta di omaggio al tennista di casa ma ai più smaliziati non sfugge un particolare: davanti a Federer e alla sua ingombrante personalità non c’è nazionalismo che tenga. E quindi non è certo una sorpresa che lo stadio sia quasi vuoto quando scendono in campo Mayer e Seppi. Le due partite che hanno inagurato il programma sono scivolate via velocemente, la terza non si è nemmeno tenuta perché Philipp Kohlschreiber si è ritirato prima di scendere in campo contro il nuovo-che-avanza (yawn), Dominic Thiem. Il tennishipster sogghigna: Kohlschreiber è un tennista piacevole da veder giocare, ma un paio di giorni fa aveva detto che gli organizzatori non avevano certo fatto un dispetto a Mayer negandogli una wild-card, visto che poteva entrare in tabellone con il ranking protetto. Certe volte il mondo restituisce quello che si è preso senza chiedere.
Prima della partita, la mente del tennishipster era piena di dubbi e di paure. E se poi non è come me l’aspetto? E se i nervi gli crollano? E se Seppi, quel grigio funzionario, lo sconfiggerà di nuovo e Florian capirà che è arrivata davvero la fine? Il nostro ha studiato, come sempre: su cinque quarti di finale, Florian Mayer li ha persi tutti; su cinque incontri con Seppi, Flo ne ha vinto appena uno. Ma l’aritmetica non è affare per le menti geniali come il tedesco, che serve come raramente gli è capitato in carriera e vince un primo set perfetto al tie-break. L’esperienza dal vivo è ancora meglio di come ci si potrebbe aspettare. Qualche settimana fa il tennishipster aveva assistito al concerto degli Animal Collective con le identiche preoccupazioni: perché un conto è un LP registrato dopo mesi di prove, ben altra cosa è l’esibizione davanti ad una platea che ha aspettato quel concerto a lungo. Mayer è un tennista scafato, però, e davanti al suo pubblico non vuole deludere. Ha un conto in sospeso con gli organizzatori e lo si capisce con la tenacia grazie alla quale riesce a tener testa al palleggi del ragionier Seppi, con l’intelligenza che gli fa giocare dei dropshot imprevedibili e spettacolari, con la delicatezza con la quale accarezza la palla colpendo quel back di rovescio semplicemente perfetto. Finisce 7-6 6-3, l’intervistatore chiede qualche parola di commento e Mayer, magnanimo, ringrazia il pubblico non prima di aver speso belle parole per il suo avversario. Il tennishipster, che ha mostrato un certo contegno per tutto il match, non può che applaudire convinto a quelle frasi breve e concise. E lasciando lo stadio, tira un sospiro di sollievo: pur avendo piena fiducia nel suo idolo, non avrebbe potuto giurare di rivedere Mayer l’indomani.
La narazione su Florian Mayer prevede che il tedesco sia un tipo eccentrico, che gioca un tennis brutto ed efficace. Sgraziato, dicono. Ma cosa c’è di sgraziato, si dice il tennishipster, in quel back di rovescio giocato con entrambe le mani che sul prato di Halle quasi non rimbalza, tanto è affilata la sua traiettoria? Su quei chop che costringono Thiem ad arretrare per poter colpire adeguatamente? Su quelle volée precise e definitive? Che cosa c’è di sgraziato nei dropshot in salto che lasciano spesso e volentieri gli avversari immobili, abbagliati da tanto imprevedibile fulgore? Dominic Thiem, che pure sembra un bravo ragazzo come Mayer, ha corso troppo questa stagione e capisce che il suo, per questo torneo, l’ha fatto. Il tennishipster è un po’ rammaricato, perché nel turno precedente Thiem ha eliminato uno dei suoi favoriti, Teymuraz Gabashvili, ma non può pensare con un po’ di nostalgia a quei giorni in cui prediceva un futuro radioso per quell’austriaco con le orecchie a sventola. Tuttavia, il presente di Halle è roba per Mayer, non per Thiem, che magari avrà modo di consolarsi a Wimbledon. Ma non qui.
La stampa mainstream, come accade sempre, si è accorta in ritardo di Mayer e alla conferenza stampa del tedesco sono in pochi ad aver dedicato la giusta attenzione alle parole di Flo. Sono già tutti sintonizzati su Alexander Zverev, il suo avversario della finale: non ha nemmeno vent’anni, ha dei capelli folti e lucenti, tira le racchette per terra quando sbaglia un colpo impossibile, ha battuto Federer e tutti i titoli sono per lui. Ancora una volta, al tennishipster non resta che sbuffare compiaciuto. Quando lo seguiva solo lui, Zverev, stavano tutti appresso alle fidanzate di Dimitrov e alle bravate di Tomic. Ora che Zverev ha cominciato a vincere qualche partita che conta, rincorrono lui e si dimenticano di chi ha tirato la carretta per tanti anni. Ma se avessero fatto attenzione quando più conta, avrebbero sentito Florian Mayer darsi un 50% di possibilità di battere Thiem, anche se i bookmaker non credevano in lui. E domani, soggiunge tra sé il suo unico supporter, la percentuale non cambierà.
Il giorno della finale, una finale tutta tedesca, non c’è nemmeno da paragonare il boato che accoglie il nome di Zverev e il tiepido applauso che accompagna Mayer verso la solitudine della sua panchina. Il tennishipster non si è nemmeno ricordato di applaudire, tanto è teso per l’esito della partita. Mayer non ha mai giocato una finale così importante e poco importa che Halle sia un odiato 500. Arrivati a questo punto, occorre piantare la bandiera del tennis alternativo e poco importa dove la si pianti. Di buono c’è che Mayer la tensione non la sente per nulla. Saranno i 33 anni, saranno i propositi di ritiro a fine anno, oppure sarà semplicemente l’incoscienza del suo tennis improvvisato e genuino. Fatto sta che Zverev per mezz’ora non ci capisce nulla, getta la racchetta a terra disgustato quando sbaglia e ammira impotente lo show del suo avversario. Il tennishipster, che certo non è sorpreso ma non osava nemmeno essere così ottimista, spalanca la bocca sui geniali dropshot che impietriscono il ragazzino e quando Mayer ricama un pallonetto imprendibile quasi si sente mancare di fronte a tanta bellezza.
Mayer ha deciso di regalarsi la partita più bella della sua carriera proprio davanti ai suoi occhi. Non lo sa, ma il suo più grande tifoso si sta emozionando in un crescendo di tensione e di gioia, fino a quando sul 6-2 5-4 un paio di errori di Zverev sembrano scrivere le ultime parole di un romanzo che il tennishipster racconterà per decenni agli sventurati che avranno l’occasione di parlare di tennis con lui. Ma preso com’è dall’eccitazione, il tennishipster ha dimenticato che Zverev sarà numero 1 del mondo tra poco. È quindi con un imperdonabile sgomento che assiste ai due match point: il primo viene annullato con un ace, il secondo grazie ad Occhio di Falco, il giudice implacabile. La palla è fuori di qualche millimetro, Florian non riesce a trovare il break, si fa agganciare sul 5-5 e nel game successivo perde il servizio. Tutto a un tratto, il tennishipster si ricorda quanto crudele e ingiusto possa essere questo sport. Sa che finirà come è finita tante altre volte e quando Zverev carica il pubblico dopo aver chiuso il secondo set non può trattenere un moto di rabbia verso quel ragazzino così sfrontato e incurante del dramma che sta contribuendo a consumare. Per calmarsi ordina un tè chai e lo corregge con un pizzico di latte di soia; odia ammetterlo, ma è un rito scaramantico che ha già messo in atto in situazioni di emergenza.
Quando Zverev ha delle palle break in apertura di terzo set, il tennishipster si è ormai calmato e ha deciso di far prevalere l’atarassia sul furore. Tuttavia, Mayer non sembra intenzionato a fare da vittima sacrificale. Le annulla entrambe, però, quelle palle break, e il pubblico, che fin dall’inizio è stato dalla parte del suo avversario, per una volta decide di supportare anche il suo figlio maggiore. Zverev è il genietto di casa, il prediletto di tutti, il naturale favorito che dovrà essere premiato alla fine della partita. Mayer è il fratello maggiore, sveglio eppure poco apprezzato, strambo ma ordinario, indecifrabile eppure così banale. I tedeschi non amano le cose complicate, le commistioni: preferiscono tennisti facili da amare o da odiare, con tratti psicologici ben definiti e con un gioco che vada al sodo e non indulga in improvvisati orpelli. Ma proprio quando la partita sembra ormai irreparabilmente compromessa, Zverev si ricorda all’improvviso di avere diciannove anni oppure è Mayer, chissà, a ricordargli che lui è nel circuito da quando Sascha aveva appena imparato a camminare. Per uno come Mayer, che nel corso della sua carriera si è dovuto conquistare col sudore ogni singola vittoria, il break che decide il match sembra quasi un’offesa, tanto è regalato. Ma oggi non è il giorno per tali sottigliezze, nemmeno se si è così sensibili a certi dettagli: il tennishipster segue l’ultimo game con un nervosismo che raramente gli è capitato di provare, sospirando rumorosamente ad ogni colpo sulla riga che Mayer gioca e lasciandosi a strozzati versi di rimpianto quando Flo manca il vincente di pochissimo. Si gioca sul filo di lana, come si suol dire, e Zverev sembra pronto a rubare la partita un’altra volta. Quando l’ultimo rovesce esce di qualche centimetro e Mayer crolla per terra come se avesse appena vinto Wimbledon, il tennishipster è distratto e si perde il momento più importante della carriera del suo idolo: ha visto passarsi di fronte tutta la vita tennista e mentre si asciuga le lacrime assieme a Flo, non riesce a credere che, una volta tanto, il lavoro paghi davvero. Del resto non ha mai lavorato in vita sua, come potrebbe saperlo?