Abbiamo problemi con la gente.
Uno degli albi più belli della Golden Age di Dylan Dog raccontava della vita sospesa di un paesino scozzese (Inverary, probabilmente Inveraray) i cui abitanti, semplicemente, dimenticavano di morire. Cadevano in una sorta di limbo in cui tutte le giornate si ripetevano sempre uguali, più o meno come nel film – molto meno interessante – del povero Harald Ramis, forse più noto per essere stato il dottor Venkman in Ghostbusters. A differenza delle ambizioni tutto sommato limitate di Groundhog Day (“Ricomincio da capo”, nell’orribile traduzione italiana), l’albo di Tiziano Sclavi era una metafora sin troppo scoperta della condizione umana, chiamata a ripetere ogni santo giorno che Dio, o chi per lui, manda in terra, la stessa identica giornata. Nell’attesa, finalmente, che quel “confine, l’attimo dilatato all’infinito, il momento in cui la vita non è ancora morte, e la morte è ancora vita” si spenga, che si trovi la pace. Se guardate la vita di un tennista – ed evitate di guardare, per il vostro bene, la vostra – vi accorgerete presto che passati i fasti della vittoria indimenticabile, del record superato, dell’obiettivo raggiunto, quello che resta è l’attesa della morte (tennistica?), dell’appendere la racchetta al chiodo. Alcuni, pochi per fortuna, non si rassegnano e danno l’impressione, appunto, di essersi dimenticati che il loro tempo è passato, che la loro vita (agonistica?) è finita, che devono lasciarsi andare ad un sacrosanto riposo.
Quando Roger Federer vinse la brutta finale di Wimbledon contro Roddick nel 2009, in molti credettero che per quello che forse è stato davvero il migliore di tutti e di sempre, ed in ogni caso quello in cui la maggior parte della gente pare credere (non è forse questa il modo migliore per rendere conto dell’esistenza di Dio?), potesse essere il degno epilogo di una carriera inimitabile. Non solo per risultati, che interessano solo ai poveri di spirito, ma per eleganza, tecnica, fantasia, fragilità, insomma per tutti quei motivi che hanno fatto di Roger Federer una specie di semidio non solo nel firmamento tennistico ma addirittura in quello sportivo. E non solo, se è vero com’è vero che uno di questi assurdi sondaggi sulle credenze della “gente” posizionava lo svizzero che passava la maggior parte del suo tempo a colpire palline da tennis con una racchetta al secondo posto tra le persone che avevano maggiormente influenzato la propria vita. Dopo Nelson Mandela, pensate un po’. A questo punto, a Roger Federer, poteva bastare dire dire addio e lasciare che la gente sospirasse al solo sentire il suo nome. Sorprendentemente, lo sapete tutti, non andò così. Federer vinse un altro Slam in Australia, regalò una delle partite più belle mai viste in un campo da tennis durante un assolato tardo venerdì di giugno del 2011, si mantenne in una sorta di limbo, oh se dorato!, fino a riuscirne fuori nel 2012, quando tornò ad essere il miglior giocatore e a vincere Wimbledon. Di nuovo, si pensò che potesse bastare, che fosse il momento di morire.
Ma Roger Federer lo dimenticò. E si trascinò per tutto il 2013, tra acciacchi alla schiena e sconfitte contro strana gente, per tornare, non tanto fulgido, nel 2014. Fu allora che cadde, ancora, nella zona del crepuscolo. Roger Federer da allora ha soltanto ripetuto le stesse giornate. La sconfitta contro in Australia bilanciata da una vittoria a Dubai e finale ad Indian Wells, un Roland Garros in cui riesce a perdere contro Gulbis riscattato da un Wimbledon in cui fu Federer solo per un quarto d’ora – e va bene che quel quarto d’ora tornò dove nessuno può raggiungerlo, ma è vita quella in cui vivi un quarto d’ora? – e poi i tornei americani, una sconfitta da uno che poteva anche essere la madonna di Medjugorie, ma come avrebbe potuto battere un dio solo poco tempo fa? – ancora vittorie e ancora sconfitte, oggi diverso da domani ma ancora uguale a domani. E così per tutto il 2015, attaccato ancora a quell’attimo “dilatato all’infinito”, che lo porta – unico certo, ma che numeri sono? – a sconfiggere tre volte l’imbattibile. Vive carriere che per altri sono irraggiungibili ma che lui ha visto e rivisto, chiedendo, ancora e ancora, un acuto, per poi chiederne un altro e un altro. E tutto questo per cosa? Per le finali perse contro Djokovic, quelle che contano? Qualche vittoria di prestigio a ricordare i bei tempi andati? Le innovazioni che un tempo non sarebbero servite, come la SABR, che tanto sanno di cure palliative?
Ma adesso che i sinistri scricchiolii ora del ginocchio, ora della schiena, ora di chissà cosa lo mostrano sempre più vicino al trapasso se proprio non vuole lasciare il tennis, se è ancora aggrappato a quel momento in cui la vita non è ancora morte forse si sta rendendo conto che questa morte, in fondo, non è neppure vita. Il tennis lo sta lasciando. Il ritiro di Madrid non è un incidente di percorso, come non lo era quello di Miami, quando solo all’ultimo momento decise di lasciar perdere. Perché tu puoi anche dimenticarti di morire. Ma la morte, prima o poi, arriva lo stesso.