Abbiamo problemi con la gente.
Rafael Nadal compirà 30 anni a giugno, e chissà se per quella data sarà riuscito a vincere un torneo. Fa impressione ricordare quelle annate in cui riusciva a infilare anche 7 tornei consecutivi su terra battuta. Lo spagnolo arranca nei tornei ATP 250, persino sulla sua superficie preferita, tornei dove una volta non andava perché sarebbe stato fin troppo facile vincere. Il 2016 potrebbe persino essere peggiore del già funesto 2015 e in molti iniziano a evocare lo spauracchio del ritiro.
Non sarà forse il caso di lasciar perdere e dedicarsi alla sua accademia? È immaginabile, e soprattutto auspicabile, un Nadal che continui a giocare e a perdere ancora per molti anni, compromettendo il ricordo di una straordinaria carriera, e di un perfetto dominio, con tante sconfitte contro Carneadi e parvenu?
Rafa non è il primo e non sarà certo l’ultimo a trovarsi in questa situazione. Gestire gli ultimi anni di una carriera di questo livello è difficile, combattuti tra il provare a fare qualcosa di diverso per allungarla e il lasciare tutto e dedicarsi al golf. Magari potrebbe essergli di qualche utilità scoprire come hanno fatto altri fuoriclasse del passato capaci di scongiurare la seconda ipotesi.
Nel 1974 Kenneth Robert Rosewall giocò la finale del torneo di Wimbledon all’età di 40 anni. Il suo nome ricorre nelle discussioni tennistiche di attualità per due motivi: per l’eleganza con la quale colpiva il rovescio ad una mano con il braccio destro, lui che era mancino naturale, e per il fatto che è il finalista di una prova del Grande Slam più anziano di sempre. Rosewall perse quella finale contro un giocatore che avrebbe seguito le sue orme, Jimmy Connors, all’epoca ventiduenne. Il tennis era diventato Open solamente nel 1969, ma Rosewall rimane comunque l’esempio più fulgido di una carriera tennistica longeva, che si è protratta fino al 1980, l’anno in cui si ritirò all’età di 46 anni. Prima del ritiro, riuscì a vincere il torneo di Tokyo nel 1977, a 43 anni, per poi lasciare definitivamente in un torneo indoor che si disputò a Melbourne, casa sua.
Quel tennis permetteva a un quarantenne non solo di conquistare finali Slam, ma di stare anche nella top 10, e infatti Rosewall ci rimase fino al 1975. Era il tennis delle racchette di legno e degli spostamenti limitati, un gioco dalle traiettorie identiche e quindi prevedibili, uno sport che si poteva praticare senza un grandissimo dispendio di energie. Giocarlo fino alla soglia dei quarant’anni non poteva quindi destare, all’epoca, grande sorpresa.
Jimbo
Il 31 maggio del 1991 a Parigi un incontro di terzo turno mette di fronte Jimmy Connors e Michael Chang. Sono passate da poco le 3 ore e 34 minuti di gioco, e Connors ha appena vinto il quarto set per 6-4. Fin lì il punteggio è 4-6, 7-5, 6-2, 4-6; l’americano ha il volto paonazzo, stremato dalla fatica. Connors ha 39 anni e sta lottando contro un tennista che ha meno della metà dei suoi anni, 19. Si gioca il primo quindici del quinto set, serve Chang. Batte una prima palla esterna, sul rovescio di Connors, che impatta col suo classico colpo piatto e leggermente tagliato in backspin, la palla viaggia in lungolinea e colpisce la riga di fondo, Chang nulla può: 0-15, Connors è in vantaggio al quinto set. L’americano prende tempo, poi decide che è giunta l’ora di dire basta. Si avvicina al giudice di sedia, il francese Bruno Rebeau e gli dice che la partita è finita. L’arbitro gli chiede: “Sei sicuro?”, e Jimmy sorridendo risponde: «Se ti dico che non ce la faccio, vuol dire che è vero». Connors esce fra gli applausi da vincitore, Chang fra l’indifferenza.
Quello di Parigi non fu l’ultimo acuto di Connors, questo sarebbe arrivato qualche mese dopo. L’americano si presenta agli Us Open 1991 da numero 936 del ranking e può scendere in campo solo grazie a una wildcard degli organizzatori. Il ritiro si avvicina sempre di più eppure Connors non è stanco di giocare. Al primo turno la sua avventura sembra finita: è sotto due set a zero e palla per il 3 a 0 contro Patrick McEnroe, fratello di John. Connors vince 6-4 al quinto set. Batte l’olandese Schapers e il cecoslovacco Novacek in tre comodi set nei due turni seguenti, ma poi c’è Aaron Krickstein, altro americano. I due ingaggiano una battaglia, con il pubblico americano che ovviamente è tutto dalla parte del trentanovenne. Connors riesce a vincere e a raggiungere i quarti di finale per quello che è il suo ultimo grande acuto in carriera. Batterà l’olandese Paul Haaruhis al turno seguente e consegnerà le armi di fronte a Jim Courier, che in semifinale gli concede solo otto game.
Questi erano gli ultimi anni di un tennista che si avvicinava ai 40, in un’epoca in cui il tennis era cambiato con l’esplosione delle racchette in grafite, già in giro da diversi anni. Connors è stato l’esempio massimo del tennista di transizione: ha iniziato a giocare con la racchetta di legno, è poi passato all’alluminio della Wilson T-2000 per arrivare a giocare l’ultima parte di carriera con un modello Estusa, casa americana famosa per aver replicato alla perfezione la Puma Boris Becker, quando l’azienda arruolò come testimonial proprio il tedesco.
Connors ha attraversato tutte le epoche moderne del tennis: dagli inizi del tennis più fisico, coinciso con l’arrivo di Borg e con la nascita degli specialisti della terra battuta, in cui spagnoli e sudamericani iniziarono a dominare; al periodo dei bombardieri americani degli anni ‘90, i vari Sampras, Agassi e Courier. Jimbo ha attraversato queste fasi con il suo stile di gioco immutato, senza però aver colto grandi successi nel finale di carriera se non sporadici exploit.
Riusciva però a essere sempre pericoloso se in giornata buona. Colpiva sempre di piatto e con effetti particolari: dal centro del campo il suo dritto viaggiava verso l’esterno tagliato all’indietro, con un taglio backspin molto particolare. Anche sul lato del rovescio eseguiva il colpo alla stessa maniera, tagliando indietro la palla. Quando queste toccavano terra schizzavano via. Era l’epoca in cui il top spin, e quindi i rimbalzi mediamente più alti, cominciavano a prendere piede, e gli avversari non erano più abituati a giocare contro questi colpi così puliti. Inoltre, Connors era un istrione, un arringatore di folle, e quindi riusciva a rendersi competitivo anche quando non poteva farlo usando mezzi di rivedibile eleganza, tendenti essenzialmente a destabilizzare l’avversario.
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