Abbiamo problemi con la gente.
By Claudio Giuliani Posted in spotting on 23 Gennaio 2016 18 min read
L’Australian Open è l’unico torneo al mondo in cui si chiude il tetto del campo anche se il sole splende. Anzi: si gioca al coperto proprio perché il sole splende, troppo. Fa caldo, talmente tanto nell’estate australiana che nel 1998 è stata inaugurata la Extreme heat policy, un codice che si usa a discrezione dell’arbitro, che può sospendere i match al termine dei set oppure ritardarne l’inizio quando il caldo supera una certa soglia.
La policy non si applica solamente quando la temperatura raggiunge un certo numero di gradi. C’è una specie di algoritmo che tiene conto della temperatura assoluta, dell’umidità, del vento e se il cielo sia nuvoloso o meno; non è quindi il termometro a stabilire se si gioca o meno. Il caldo, in Australia, c’è sempre stato, anche se alcuni scienziati ritengono che i cambi climatici degli ultimi anni abbiano reso ancora più dure queste ondate di caldo, brevi ma intense.
Nel 2014 per quattro giorni di fila si sono superati i 40 gradi. Replicando un gesto già compiuto nei primi anni ‘90, quando il torneo si giocava sul verde del Rebound Ace, lo show televisivo australiano Sunrise postò una foto di un uovo che friggeva sul cemento di Melbourne Park.
L’edizione che vide vincere Stan Wawrinka stabilì il record di temperature a Melbourne negli ultimi 100 anni: ci furono 243 ricoveri in ospedale per malori dovuti al caldo in città. Alcuni tennisti vomitarono, tantissimi furono presi da crampi e qualcuno arrivò anche a temere per la sua incolumità. Ivan Dodig, tennista croato, dichiarò in conferenza stampa: «In campo mi chiedevo: ma morirò?». Il torneo proseguì fra facce paonazze, malori vari e asciugamani carichi di ghiaccio arrotolati come una sciarpa attorno al collo. Il tennista canadese Frank Dancevic durante un suo incontro fu colto da vertigini e al termine della partita disse di aver visto Snoopy in campo.
Caroline Wozniacki raccontò che il fondo di una bottiglia di plastica si era squagliato a contatto col terreno di gioco mentre Tsonga disse che le suole delle sue scarpe erano più morbide proprio per il caldo. John Isner usò una metafora culinaria: «Quando entro in campo è come quando apro il forno e le patate sono pronte».
Ci furono molte polemiche perché si scontravano due visioni. Quella del medico del torneo, Tim Woods, che disse: «Se lo facevano i nostri antenati (stare sotto il caldo per molte ore), che rincorrevano le antilopi otto ore al giorno in Africa, possiamo farlo anche noi». E quella dei giocatori, sintetizzata dalle asciutte parole di Andy Murray: «Queste condizioni di gioco sono inumane».
Eppure lo staff medico degli Australian Open si prodiga nel dare buoni consigli. I giocatori, appena si registrano al torneo, ricevono delle informazioni su come sarà il tempo nei giorni a seguire con i consigli su come prepararsi al gran caldo. Primo suggerimento, già noto, è quello di arrivare il prima possibile per acclimatarsi con l’Australia: se ci si allena al caldo, si allena il fisico a sopportare il caldo. Si consiglia poi di fare una doccia a temperatura media, con acqua tiepida a 15 o 20 gradi di temperatura, per quindici minuti in prossimità del match. E poi, come nella migliore tradizione dei servizi dei telegiornali estivi, si raccomanda di vestirsi leggeri e di bianco.
Pete Sampras, che ha sottolineato come chiudere il tetto e accendere l’aria condizionata trasformi di fatto il torneo in una gara indoor, coglie il punto con questa dichiarazione: «Come atleta uno dovrebbe essere pronto a giocare in ogni condizione, ma la qualità del tennis nel caldo australiano non può essere fantastica».
Nel 2009, Novak Djokovic, campione uscente, si ritirò per il caldo contro Andy Roddick, sotto per due set a uno. Il serbo era stato due ore in campo sotto 37 gradi. I fotografi, nella “fossa”, scattavano con gli asciugamani in testa. Djokovic aveva la reputazione del ritiro facile, tanto che lo stesso Roddick lo prese in giro in conferenza stampa alla vigilia del match: quello di Melbourne 2009 fu il quarto ritiro in 27 prove dello Slam. Per fare un raffronto con i suoi maggiori avversari, Nadal si è ritirato solo una volta, Murray e Federer mai. Il serbo fu colpito da crampi in tutte le parti del corpo. «Non puoi lottare contro il tuo corpo», disse poi a match concluso. La finale femminile del 2003 fra le sorelle Williams fu giocata al coperto della Rod Laver Arena, proprio per la temperature altissime. Fu la prima volta che una finale degli Open femminili si disputava al coperto per via del caldo e non della pioggia. Quella dell’anno prima, fra Martina Hingis e Jennifer Capriati, fu sospesa per dieci minuti. La temperatura segnava 46 gradi.
That's how hot it was. Thank you everybody for being so persistent and passionate about our sport. @ AustralianOpen pic.twitter.com/pc7hAUbHQm
— Novak Djokovic (@DjokerNole) January 17, 2014
Nel 2014 la soglia al di sopra della quale si applica la EHP è salita da 28 a 32.5 per evitare spezzettature nel gioco. Il risultato è stato questo.
Di solito si spreca il tempo del discorso di premiazione, di fronte a migliaia di persone allo stadio e milioni in TV collegate in tutte le parti del mondo, per fare i complimenti all’avversario, per dire che è stato un torneo bellissimo, che la transportation ha funzionato bene, che i raccattapalle sono stati puntuali e che il pubblico locale è il migliore del circuito.
Si ricordano in genere gli speech di grandi campioni che lasciano, come quello di Agassi contro Becker nel 2006 agli US Open o di Flavia Pennetta, che sorprende tutti e abbandona il tennis dopo aver vinto il suo primo Slam. Oppure quello di Roberta Vinci agli ultimi US Open dopo aver deluso non solo Serena Williams, ma una nazione intera. E poi c’è Li Na. La cinese a Melbourne ha stabilito quel rapporto particolare che, per esempio, ha sempre legato Flavia Pennetta a New York. Nel 2011 ci ha giocato la prima finale Slam in carriera, nel 2013 è tornata in finale e si è fatta fermare da Viktoria Azarenka ma anche da due cadute nel corso della partita e poi nel 2014 ha finalmente alzato il trofeo dopo aver dominato tutte le sue avversarie dal quarto turno in poi (nel terzo, invece, aveva dovuto annullare un match point contro Lucie Safarova). Nell’arco di due minuti scarsi, Li Na, sempre sorridente con chi non faceva parte dei media cinesi, è riuscita a condensare ringraziamenti, risate e ironia. Fece i complimenti di rito a Dominika Cibulkova, ovviamente, e poi cominciò il suo secondo show della serata.
Ringraziò il suo agente «per avermi reso ricca» e poi il marito, suo coach per molti anni prima di affidarsi a Carlos Rodríguez. Ma era lui a dover ringraziare lei: «Ora sei famoso in Cina». Per poi proseguire così: «Grazie per avermi fatto da sparring partner, per avermi preparato da bere e sistemato le racchette: sei un tipo simpatico, grazie molte. Ah, e poi sei molto fortunato per avermi incontrata». Si è ritirata pochi mesi dopo quel discorso, per via di un ginocchio che proprio non voleva guarire, con una lettera lunga ed emozionante, che ha confermato lo spessore umano di questa atleta.
Uno dei migliori speech di sempre, il testamento tennistico di Li Na è pura stand-up comedy.
Il 19 Gennaio del 2013 è una qualsiasi giornata di Slam a Melbourne. È sabato e in mattinata Roberta Vinci ha perso contro Vesnina la possibilità di accedere agli ottavi di finale. Alla Rod Laver Arena hanno giocato e vinto Murray, Serena Williams e Victoria Azarenka. Nell’Hisense Arena Juan Martín del Potro, che era arrivato ai quarti nello Slam precedente, va sotto due set a zero contro Chardy. Sbuffa e recupera, arriva al quinto set, in genere il giocatore sfavorito molla, per lasciare il passo al più forte. Sia vero o no, stavolta non succede e Chardy chiude 6-3 dopo 3 ore e 45 minuti.
Dopo Caroline Wozniacki e Leslja Kurenko alle 19.40 entrano in campo Gaël Monfils e Gilles Simon. Sulla Rod Laver hanno appena cominciato Federer e Tomic e quindi ad accogliere i due francesi oltre ai raccattapalle ci sono solo le luci, qualche francese, e qualche smarrito corrispondente.
Gaël Monfils è un istrione sempre rotto, con mille malanni fisici in un meraviglioso corpo d’atleta. Ogni tanto gioca, ogni tanto no, ha sempre un dolore che l’accompagna. Se sta bene magari fa partita pari con Federer, se sta male lasciamo perdere. Se sta così così nessuno sa cosa mai possa succedere. Non gioca uno Slam dall’anno prima e all’esordio gli capita Dolgopolov: perde 7-6 il primo set, ma dopo tre ore vince la partita. Poi Lu Yen-Hsun. Gaël vince il primo set poi sembra crollare. Il taiwanese gli rifila un 6-4 6-0 che sembra preludere alla disfatta ma Gaël risorge, vince il quarto 6-1 e i due iniziano un lungo quinto set che il francese vince per 8-6 dopo aver sprecato 5 match point. Sempre in quattro ore circa di gioco.
Dall’altra parte della rete c’è Gilles Simon. Gilles sembrava non dover giocare l’Australian Open perché, alla vigilia del torneo, lamentava problemi alla cervicale. Riesce lo stesso a scendere in campo contro Volandri e contro Levine per quanto sia rotto “Gilou” è troppo intelligente per perdere più del primo set con entrambi. Ma ogni volta la domanda è se lo vedremo in campo o no.
Sono ancora davanti all’arbitro che Monfils comincia a toccarsi gambe, spalla, braccia. Simon proprio non ce la fa a tenere in campo una prima, ma vince lo stesso il primo set. Nel secondo Monfils sotto 3 a 0 chiama il fisioterapista e si fa massaggiare le natiche. Funziona parzialmente, il parigino recupera e sul 4 pari. Ed è qui che succede. Simon serve sullo 0-15, giocano da un’ora e 40 minuti. Sono le 21.27. Dritti e rovesci si susseguono, un colpo di Simon sembra lungo ma rimane in campo, un paio di accelerazioni di Monfils vengono recuperate da lentissimi chop di Simon. Lo scambio non finisce. Dritti e rovesci, slice e top, incrociati e lungolinea. Quando i due finiscono sono le 21.30. Hanno tirato 71 colpi. 71. Settantuno. Troppo pure per Monfils che oltre al punto finisce col perdere anche il secondo set.
1 minuto e 43 secondi di scambio, pura resistenza. Ci vengono in mente i partigiani sulle colline, i giapponesi asserragliati nel fortino, o il rifiuto dei Brown di fronte al pagamento delle tasse in Usa.
Potrebbe bastare ma invece no. Federer ha finito, ma non arriva nessuno all’Hisense, la partita merita poco, sembra che stia finendo. Simon va avanti 3 a 2 nel terzo e chiama il massaggiatore per un problema al ginocchio sinistro. Quando il massaggiatore va via Simon comincia ad aver fretta di chiudere, il ginocchio non regge. Ha una palla break sul 4 pari, la manca, e nel game successivo più che tirare il servizio mette dall’altra parte una palla. Subisce il break e crolla, Monfils si aggiudica anche il quarto set per 6-1, un set che dura lo stesso tre quarti d’ora. E nel quinto va avanti 2-0. Mezzanotte è passata, il giudice di sedia sorride ad ogni punto, i fisioterapisti si sono aggiunti ai pochi spettatori, i due tirano colpi di straordinaria lentezza aspettando che qualcuno crolli a terra. Nessuno arriva all’Hisense ma sono gli “addetti ai lavori” che cominciano a seguirla tra l’incredulo e il divertito. Alcuni cominciano a chiedersi cosa succederebbe se entrambi crollassero contemporaneamente e si capisce che è quel che sperano; altri fanno gli spiritosi con rivedibile gusto e twittano che «questi francesi cominciano così e poi finiscono con la ghigliottina»; altri ancora sono colti e dicono di preferire Les Misérables perché «la storia è più o meno la stessa ma almeno dura di meno». All’una Ivanisevic – c’era un doppio tra le leggende (vabbè) programmato dopo – implora l’arresto dei due.
Cosa vedi, Gilles?
In tribuna si ride ad ogni colpo, si scommette su chi sarà il prossimo a chiedere il fisioterapista, stravince l’ipotesi del giudice di sedia. Quando i due arrivano 5 pari, al quinto, uno scorato Ljubicic si chiede «ma cosa diavolo sta succedendo?» La partita non la guarda più nessuno, l’orologio tutti. A mezzanotte e mezza i due vanno sul 6 pari. Finisce 8-6. Al match successivo, contro Murray, quando il giudice di sedia chiede «siete pronti?» la risposta del sopravvissuto è laconica: no.
Davvero volete sapere chi ha vinto?
Fino alla fine degli anni ‘70 i vincitori che portavano il trofeo fuori dai confini dell’Australia si contavano sulle dita: qualche coraggioso britannico, naturalmente, uno sparuto francese, o qualche fortissimo statunitense in cerca del Grande Slam. Ma in buona sostanza, per circa sessant’anni, gli Australian Championship (che poi divennero Open) restarono un affare per australiani. Bisogna aspettare il 1977, nel torneo maschile, e il 1979, in quello femminile, per assistere ad una finale senza australiani coinvolti. Da allora sono cambiate tante cose: i prezzi dei biglietti aerei, per esempio, ma anche l’organizzazione del torneo, fino a pochi anni fa considerato la gamba zoppa dei quattro Slam. Oggi gli Australian Open sono uno Slam ambito esattamente come gli altri tre e questo significa che i padroni di casa si devono sudare il titolo quanto gli altri. Anzi, forse di più: la pressione, per chi gioca in casa gli Slam, è molto maggiore.
L’Australia, negli ultimi quindici anni ha avuto due campioni Slam: Lleyton Hewitt, che è stato anche numero 1 al mondo, e Samantha Stosur. Eppure, nessuno dei due è riuscito a riportare a casa un trofeo che manca da quasi quarant’anni. Hewitt la sua opportunità ce l’ha avuta nel 2005, Marat Safin gli aveva appena tolto di mezzo quello svizzero che non aveva più intenzione di perdere e tutti gli occhi erano su di lui. Non era stato un torneo semplice: aveva dovuto battere in cinque set un giovane Rafael Nadal agli ottavi, poi aveva dovuto fare il bis con David Nalbandian nei quarti, vincendo un quinto set durato 97 minuti, e infine aveva dovuto rimontare un set ad Andy Roddick in semifinale. L’eliminazione di Roger Federer sembrava la classica ciliegina sulla torta. Ma dopo aver dominato il primo set, Hewitt cominciò a soffrire il tennis potente e talentuoso di Safin e, forse, le precedenti battaglie. La pressione dei 16.000 spettatori non fece altro che aumentare le difficoltà. Dopo il match, Hewitt disse di essere ovviamente deluso ma che una finale nel torneo di casa, la prima per lui, era un grande risultato. Forse pensava di giocarne altre, invece da allora non ha più giocato nemmeno un quarto di finale a Melbourne.
Per Samantha Stosur – vincitrice agli US Open 2011 e finalista al Roland Garros 2010 – il rapporto con Melbourne è ancora più difficile e drammatico. L’australiana ha un braccio di titanio e nervi di cristallo, eppure è riuscita a sconfiggere Serena Williams in una finale Slam. In casa sua, però, le prestazioni sono sempre state deludenti: mai un quarto di finale, tre volte eliminata al primo turno, quattro volte al secondo e altrettante al terzo. Sam, che ha uno dei servizi migliori del circuito e uno dei kick più difficili a cui rispondere, ha ammesso più volte di avvertire troppo la pressione di gennaio e in effetti non ha nemmeno mai vinto uno dei tornei preparatori allo Slam. Ancora peggio ha fatto Jarmila Gajdosova, australiana d’adozione, tennista di livello inferiore rispetto a Stosur, ma comunque capace di arrivare agli ottavi sia al Roland Garros che a Wimbledon: nonostante quattro wild-card (cioè un posto nel tabellone riservato di solito agli atleti di casa che non hanno i requisiti di classifica per partecipare) ha dovuto aspettare il 2015 per centrare la prima vittoria nel torneo dopo nove eliminazioni consecutive al primo turno. A meno che Bernard Tomic o Nick Kyrgios non decidano di rompere all’improvviso le cristalizzate gerarchie del tennis moderno, l’Australia dovrà probabilmente aspettare ancora un po’. Ma se la Gran Bretagna ha aspettato per 77 anni per vedere tornare a casa Wimbledon, l’Australia può anche pazientare un altro po’.
Il 26 dicembre del 1974 comincia il 62° Australian Open, l’ultimo Slam dell’anno. A differenza di quanto accade di questi tempi, i tornei dello Slam non erano tutti uguali. A Melbourne il primo turno si giocava due set su tre, i tabelloni erano di 64 giocatori e il primo gennaio il torneo era già finito. Il torneo lo vinse Connors, ma quell’anno giocò anche un giovane svedese che vinse con qualche difficoltà la prima partita, saltò la seconda grazie al ritiro di un messicano che voleva essere a casa per Capodanno e perse la terza contro Phil Dent, racimolando la miseria di sette game. Lo svedese dice che tornerà a Melbourne quando si tratterà di completare il Grande Slam. Cioè dopo aver vinto a Parigi, a Wimbledon e a New York. A Melbourne Bjorn Borg non tornerà mai più.
Il tennista svedese più famoso di sempre nel 1978 vince a Parigi e a Wimbledon. Va a New York e arriva in finale contro Jimmy Connors che, sul cemento, vince in tre set. Alla fine il solito simpatico Jimmy dice: «Se anche avessi perso sarei andato a Melbourne, non lo farà mai il grande Slam». Nel 1979 Borg rivince a Parigi e rivince a Wimbledon. A New York si ferma stavolta ai quarti, sconfitto da Roscoe Tanner. Ci prova l’ultima volta nel 1980, l’anno del famoso tiebreak. Borg e McEnroe si ritrovano a New York e arrivano di nuovo al quinto set, ma stavolta è McEnroe a trovare il modo per vincere. L’anno dopo di Grande Slam – e di Melbourne – non si parlò più.
Ma ne arrivò un altro. Alto, biondo, bello e silenzioso. Con il rovescio a due mani. Instancabile. Che però non vinceva a Wimbledon. E quindi poté andare serenamente a Melbourne. E vincere. Wilander è stato un fuoriclasse, così come Edberg, che ne vinse due di Australian Open, ma doveva vincerne quattro. Melbourne diventò un territorio d’oltremare svedese. Ogni anno una decina di avvinazzati si colorano la faccia di giallo e blu e partono per i caldi mari del sud. In tribuna fanno molto chiasso e hanno l’aria di chi di tennis ne capisce davvero poco e ancora meno ne sono interessati. Ma l’Australia è accogliente e li ricompensa, anche se magari in semifinale non arrivano più. Più? Nel 1999 Thomas Enqvist batte Rafter e Philippousis e perde in finale contro Kafelnikov; nel 2000 tocca a Norman cedere al russo in semifinale. Nel 2001 gli svedesi spariscono, ma nel 2002…
Nel 2002 i primi tre del tabellone non arrivano a martedì. Hewitt e Kuerten perdono al primo turno, Agassi decide di non andare. Il numero 4 e il numero 5 vincono una partita e poi perdono contro misteriosi giocatori mai visti prima né sentiti dopo. C’è Federer che batte Chang e perde al quinto contro Tommy Haas. Il tedesco arriva in semifinale e sbatte su Safin che va sotto due set a uno e poi gli rifila un severo 6-0 6-2. Dall’altra parte c’è lo svedese. Perde set ad ogni turno, anche in semifinale quando affronta Jiri Novak che si porta in vantaggio per due set a uno ma poi cede al quinto. La finale è scritta, tra i due non c’è paragone possibile. Marat Safin è uno che ha disintegrato Sampras a New York, Thomas Johansson è uno svedese. Punto. Ma siamo in Australia, la finale passerà alla storia come quella che Safin perse perché passò la notte prima della finale in albergo a bere vodka con ragazze allegre. Non sapeva che a Melbourne, in Australia, alla fine, vince Borg.