Abbiamo problemi con la gente.
“Ha giocato meglio di me. È stato più aggressivo di me. Ha preso più rischi e ha vinto. Probabilmente l’ha meritato”. Quando Verdasco si è spostato a sinistra per tirare meglio il terribile dritto che avrebbe chiuso l’incontro, Rafael Nadal, l’uomo dai 14 slam, quello capace di ridurre Federer alle lacrime, di rimandare il dominio di uno come Djokovic di almeno tre anni, di trionfare, cadere, risorgere, e ricadere avrà finalmente capito? Si sarà detto finalmente che non è un allenamento in più o in meno, la capacità di soffrire, di fare i conti con sé stesso che modificherà un’impietosa e irreversibile sentenza? Rafael Nadal, semplicemente, non è più in grado di far paura agli avversari. E questo Rafael Nadal, semplicemente, non lo sarà mai più.
La partita di ieri non è stata una partita anomala. Da due anni, forse due e mezzo, Nadal è questo. Un giocatore abilissimo a sfruttare le debolezze degli avversari ma impossibilitato a prendere qualsiasi contromisura se l’avversario di turno è in giornata di grazia. Ma Nadal una volta la giornata di grazia era in grado di fartela passare con un paio di dritti ben assestati e con un asfissiante e continuo palleggio tenuto negli ultimi centimetri di campo. Da due anni invece, quella maledetta pallina supera la linea del servizio e si impenna docile verso il dritto o il rovescio di qualsiasi avversario. E come Verdasco ieri, a quel punto non resta che avventarcisi con tutta la classe e la potenza che in anni non troppo lontani era stata frustrata fino alla depressione dall’uomo chiamato Rafael Nadal. Ieri Nadal giocava contro il numero 42 del mondo, incapace di un qualche acuto forse proprio da quel lontano, lontanissimo, da oggi più lontano che mai, 30 gennaio del 2009, quando i due diedero vita ad un incontro di ben altro livello tecnico e agonistico. Ma se avesse giocato contro un qualsiasi top-10 la partita si sarebbe chiusa prima, altro che quinto set. Verdasco ci ha provato in tutti i modi a perderla: sciupando le uniche palle break del primo set, facendosi brekkare quando serviva per il quarto, andando sotto 2 a 0 nel quinto. Non c’è riuscito, ci voleva ben altro impegno per far vincere il Nadal di ieri.
Nadal ha dato in pasto ai giornalisti la spiegazione che tutti conoscono: il mio dritto non fa più male, l’avversario finisce con il giocare nella parte di campo che preferisce e rischia troppo poco. È la storia del suo declino, non solamente la storia di questa ennesima sconfitta. Nadal non è più aggressivo. Nadal è la lepre, non il cacciatore. E se vogliamo credere anche al barlume di sincerità che salta fuori quando si perde come ieri, “io avrei dovuto avvantaggiarmene [del primo set giocato male da Verdasco], ma non ci sono riuscito”, Nadal non è neanche più un vincente. Nadal, insomma, non è più Nadal.
Un anno fa
Il problema è che Nadal era in queste esatte condizioni anche dodici mesi fa. Veniva però da un lungo periodo di stop, perché dopo aver vinto il nono Roland Garros ed aver perso al quarto turno contro Nick Kyrgios a Wimbledon, Rafa giocò un paio di match nel corso del 2014. Rientrò in Australia, dove difendeva i punti della finale giocata e persa l’anno prima con Wawrinka, e soffrì per cinque lunghi set contro un tennista che normalmente non ha alcuna chance non solo contro i semidei come Djokovic, Federer, Nadal, Wawrinka, Murray, ma nemmeno contro gli umani. Tim Smyczek e i suoi colpi non particolarmente potenti, né troppo angolati o anticipati, nè troppo niente, riuscirono a impegnare Nadal per oltre quattro ore. Alla fine, vinto l’ultimo punto, Nadal si gettò a terra, esausto, come se avesse appena chiuso il Double Career Grand Slam. Era un secondo turno. Con queste premesse era più che normale che il suo torneo finisse qualche turno più avanti, contro un umano come Tomas Berdych, forte, fortissimo, ma che Nadal aveva battuto le ultime 17 volte. Diciassette. Ma veniva un periodo di riposo molto lungo, si disse, il vero Nadal lo vedremo sulla terra .
E in effetti qualche mese più tardi, ancora contro Berdych, Nadal sembrò essere Nadal: lo spagnolo vinse la semifinale del Master 1000 di Madrid soffrendo il necessario, facendo sfogare l’avversario e colpendolo al momento giusto, infierendo sulle debolezze mentali del ceco, come ai tempi belli. Il vecchio ritornello della terra rigeneratrice, quella che gli aveva fatto vincere chissà come il nono Roland Garros, tornò a farsi largo sui titoli dei giornali. Nemmeno ventiquattr’ore dopo, tuttavia, bastò un Murray ordinato per spazzare via Nadal e le certezze dei suoi sostenitori.
Finito? Macchè. La vera prova, si diceva, è a Parigi, dove l’aura dello spagnolo sembra lucentissima. Forse perché si gioca al meglio dei cinque set, forse per la sacralità del Philippe Chatrier, forse perché quell’unica sconfitta a Parigi sembrò quasi un bug del sistema: fatto sta che a nessuno sembrava concepibile che Nadal si arrendesse tanto facilmente al nuovo padrone del tennis mondiale, Novak Djokovic. E invece l’inconcepibile avvenne: Djokovic, da tiranno distratto qual è, gli concesse di giocare il primo set, poi nel secondo mise la terza e chiuse con una sicurezza impressionante in tre set. Detronizzato anche a Parigi, a Nadal non rimase nessuno straccio per nascondere le nudità. Il paradosso sta tutto nel suo finale di stagione: solitamente arrancante nei tornei di fine stagione spesso consumato dalle tante vittorie, stavolta dagli US Open in poi ha finito per giocare il suo tennis più convincente dell’anno tribolato, ridestando un po’ chi temeva che la stella dello spagnolo fosse ormai nella fase di collasso. Poi è arrivato il primo Slam del 2016 e Verdasco si è aggiunto ad un club che comprende due simpaticissimi ragazzi come Fabio Fognini e Dustin Brown.
Cosa può fare Nadal
Nella conferenza stampa di ieri, Nadal ha detto che sta provando a cambiare qualcosina del suo gioco. Altro non sta facendo che cercare di giocare qualche metro più avanti rispetto alle distanze oramai siderali che separano i suoi piedi dalla riga di fondo campo. Starebbe cioè cercando di recuperare l’aggressività dei bei tempi. Il gioco di Nadal gira attorno al colpo più straordinario degli ultimi 15 anni, il suo dritto. Rafa ha impostato l’economia del suo gioco, la sua carriera, su questo colpo. Il Rafa dei tempi belli lasciava dei buchi terribili per poter colpire di dritto e in quei buchi nessuno poteva infilarsi, perché la straordinaria condizione fisica gli permetteva di recuperare la posizione con una rapidità forse mai vista sui campi da tennis. Oggi viene spesso infilato proprio perché quella corsa sfrenata per poter giocare il dritto invece del rovescio non è così veloce. E arrivando un attimo dopo, quando arriva, il suo colpo perde di mordente diventando un assist per l’avversario. Verdasco, con i suoi 90 vincenti del match, insegna. Non è un caso che il colpo che funziona meglio sia il rovescio, quello che si rivelò molto importante nella vittoria di Wimbledon contro Federer. Seppure meno efficace dell’incredibile dritto, il rovescio è un colpo che Rafa esegue con meno rotazione ma con maggiore fluidità. Oggi è quello che gli consente di perdere meno campo nel suo gioco quando è in fase difensiva perchè riesce a sviluppare buone velocità anche di controbalzo, riuscendo a prendere in mano lo scambio, e a passare dalla fase difensiva alla fase offensiva.
Sul dritto, in difesa, non riesce a fare la stessa cosa perché il colpo necessita di un processo di caricamento più lungo, e se corri disperatamente a tre metri dalla linea di fondocampo cercando di uncinare la palla di tempo ce n’è poco. Così molti diritti di Rafa adesso sono giocati con movimenti spezzati e terminano nel rettangolo di battuta dell’avversario. Puoi dare tutto il topspin che vuoi ma la realtà è che questi colpi non fanno più male. E se hai costruito tutto il tuo gioco attorno a questo colpo, cos’altro ti resta?
Ma non si può chiedere a Rafael Nadal di cambiare movimento del dritto. Rafael Nadal non è Ernests Gulbis, che pure ci ha provato per un breve periodo a cambiare movimento di dritto, ottenendo anche buoni risultati. Qui si parla di uno che ha vinto 14 Slam, e che si è allenato duramente per vincerne altri, perché lui pensa di esserne ancora in grado. Altrimenti smetterebbe.
In molti invocano un cambio di allenatore. Non c’è un rapporto più viscerale tra allenatore e giocatore nel circuito ATP di quello fra Rafa e Toni Nadal, appunto imparentati. Suo zio Toni, fratello di Miguel Ángel, ex stopper del Barcellona, è il motivatore severo, l’artefice principale, se non unico, della crescita di Rafa. Quello che si vede in campo anche oggi, l’estrema concentrazione, il non mollare mai neanche quando il punteggio ti suggerisce il contrario, è frutto del lavoro del team Nadal. Suo zio è quello che lo ha fatto rialzare dalla sconfitta di Wimbledon del 2007, quando perse da Federer e corse negli spogliatoi a piangere. Fu lo zio, questa volta in maniera dolce (“L’anno scorso hai vinto un set, quest’anno ne hai vinti due. Magari l’anno prossimo…”), a farlo rialzare, dandogli fiducia e portandolo al trionfo l’anno seguente, prendendosi una bella rivincita su Federer.
Come si fa a dire stop a questo rapporto? Come potrebbe una qualsiasi altra persona entrare nella mente di Rafa, perché lì dentro, più che da altre parti si annida il problema, e costruire un rapporto di fiducia necessario affinché Rafa si fidi a provare qualcosa di diverso? Semplicemente, è impossibile. E forse, nell’autunno tennistico di Rafael Nadal, non c’è spazio per tentare un qualcosa che nuocerebbe all’armonia famigliare. Lo stesso Rafa, sollecitato dalla stampa durante tutto il 2015 sul cambio di allenatore, è stato sempre lapidario: “La famiglia è più importante del tennis”.
Ma davanti a lui, come sempre, c’è l’ombra di quello svizzero.
Il caso Federer
Nel 2013 Roger Federer non vinse neanche una prova del Grande Slam. Adesso è diventata una abitudine ma Roger, tranne il 2011, dal primo trionfo di Wimbledon nel 2003, aveva sempre chiuso l’anno aggiudicandosene almeno uno. E nel 2011, vinse almeno le ATP Finals, mentre nel 2013 accumulò sconfitte clamorose culminate con l’eliminazione subita da Stakhovsky a Wimbledon. Era un incontro di secondo turno, e Federer non veniva eliminato prima dei quarti di finale in uno Slam dal 2004. Nel frattempo, ai tornei di Amburgo e Gstaad, aveva provato una racchetta nuova, tornando poi alla vecchia, perdendo anche lì da sconosciuti carneadi della racchetta.
Giocava male, aveva problemi fisici, e ogni tre colpi impattati di rovescio due erano steccati. Firme importanti del giornalismo italiano, e non solo, lo invitavano a ritirarsi, per il suo bene. Il tennis, per via del suo calendario fitto, non è uno sport che permette di fare cambiamenti in corsa. Accorciare il lancio di palla di 5 centimetri, anticipando il movimento del servizio per concedere meno tempo di lettura del colpo all’avversario, richiede settimane di allenamento sul campo, una cosa che si può fare solo nella off-season – a meno che non si vadano a raccattare i dollari del carrozzone IPTL nel sud-est asiatico. Figurarsi cambiare una racchetta. Quando un giocatore prova a cambiarla nel corso della stagione, addirittura nel corso della partita (Paire ai recenti Australian Open, per esempio), è segno che qualcosa non va (e Paire, infatti, ha perso la partita). Ma nella testa.
Federer tornò al vecchio attrezzo e al quarto turno degli US Open perse contro Tommy Robredo, uno che nei precedenti raramente arrivava a vincere cinque game in un set. Rafa Nadal ha fatto la stessa cosa nell’anno peggiore della sua carriera, il 2015. Al Roland Garros, nell’unico vero obiettivo stagionale, si presentò con la nuova versione della sua racchetta storica. L’aveva provata qualche volta in allenamento tanto che non aveva il paintjob, ovvero la colorazione commerciale per indurre gli appassionati ad acquistarla – quando invece i professionisti utilizzano sempre altre racchette, versioni fatte su misura, e montano solo la colorazione di quella in commercio.
A fine anno, quando era giusto compiere questa scelta, Federer si decise a cambiare attrezzo. Lui, che giocava ancora con un profilo ampio 90 pollici, la vecchia Wilson Pro Staff cara a Sampras (che però usava un ovale più piccolo), adottò un piatto ampio 97 pollici, come gran parte dei suoi rivali (Wawrinka, Nadal, Djokovic), che inevitabilmente portò miglioramenti nel suo gioco, specie dal lato del rovescio. Ma Federer si riprese anche dal punto di vista fisico, trovando una nuova giovinezza che gli ha permesso di cambiare anche qualcosa dal punto di vista del gioco, velocizzando all’estremo il suo tennis per non disperdere preziose energie in campo. Ci è riuscito anche grazie alla sua tecnica di gioco, sotto la guida di Edberg, che semplicemente lo ha portato ad assomigliare al Federer pre 2004, quando sbaragliava la concorrenza con un tennis aggressivo come non si era mai visto.
Ipotizzare un percorso simile per Nadal, che ha un tennis totalmente diverso, e una racchetta perfetta per il suo gioco praticamente da sempre, non produrrebbe nessun vantaggio al maiorchino.
L’evoluzione della specie
A Nadal non piace il cambiamento, a Federer sì. Ma quando sei un trentenne con ancora tanta ambizione, il cambiamento diventa necessario per la sopravvivenza. La nuova carriera di Federer è lì a dimostrarlo: il 2013 è stato un anno di transizione che si è concluso con l’annuncio della partnership con Edberg. Il biennio con il suo idolo di gioventù non ha portato titoli dello Slam, ma Federer è sempre stato in scia di Djokovic e per gran parte dell’ultima stagione, pur chiudendo al numero 3 del ranking ATP, è sembrato l’unico rivale credibile allo strapotere di Djokovic. Però se Federer ha potuto costruirsi una nuova carriera a 34 anni, è anche perché lo svizzero è l’anello di congiunzione tra il tennis degli anni ‘90 e quello attuale. Da serve-and-volleyer a baseliner puro, da baseliner puro a baseliner ibrido: le varie fasi della sua carriera sono state rese possibili dall’estrema ecletticità del suo tennis, dalla capacità di adattarsi alle condizioni di gioco e agli avversari. Nadal non difetta certo in talento, ma il suo tennis trae linfa vitale dall’agonismo, dalla lotta fisica, dalla cosiddetta tigna. In carriera ha perso soltanto sette incontri terminati al quinto set, ma due di questi sono avvenuti negli ultimi sei mesi. Se manca la combattività, va in corto circuito tutto il delicatissimo ecosistema Nadal e le sconfitte con Fognini e Verdasco lo dimostrano.
Se il percorso di perfezionamento di Federer sembra ancora in corso, quello di Nadal sembra concluso da oltre due anni. Era l’estate del 2013, Nadal vinceva in fila Montréal, Cincinnati e US Open, una tripletta che non è riuscita né a Federer né a Djokovic. Da allora Nadal non è più stato competitivo ad alti livelli al di fuori della terra battuta (e pure sulla sua superficie preferita lo è stato per un brevissimo periodo), a parte l’episodica finale di Melbourne 2014. Ma è giusto che sia la terra a dirci in quale punto della sua parabola discendente si trova il maiorchino. Nadal, per un decennio, ha rappresentato il punto di riferimento per chi giocava sulla terra battuta. Se Djokovic non ha ancora completato il Career Grand Slam, è gran parte colpa di Nadal. Quindi aspettiamo pure Montecarlo, forse Roma, oppure addirittura Parigi. Perché una cosa è certa: ad ogni Roland Garros che giocherà fino al ritiro torneremo a domandarci se Nadal è morto davvero o se rivedremo quel terribile diavolo che arrivava in qualsiasi parte del campo e poi ti frantumava col dritto. Darwin, o non Darwin.