Abbiamo problemi con la gente.
Ci sono città che farebbero carte false per avere un misero 250 nel proprio territorio. Altre che hanno manie provinciali e che non ritengono di dover far nulla oltre che far vedere i monumenti che circondano un campo da tennis. Altre ancora che sono beatamente indifferenti a questo sport che è raramente bello e spesso bellissimo. E poi c’è Parigi. Non si tratta di cominciare con Montmartre, Île Saint-Louis e quartieri latini; o magari di fare quelli degli angoli sconosciuti, del Buttes-Chaumont, della Statua della Libertà appena sotto il Pont de Grenelle o della terrazza dell’istituto del mondo arabo; o, peggio, di trattare Parigi come tutte le altre città del mondo. È che si dovrebbe provare a uscire da Parigi restandoci dentro. E uno dei luoghi in cui forse si può fare è Bercy. Approfittando della volgarità parigina, quella condivisa col resto del mondo, che ti fa costruire palazzoni multifunzionali, subito definiti gioielli architettonici, all’interno del quale, in perfetto stile non-luogo, ruotare “eventi”. Che stancamente sono sempre gli stessi, il concerto della rock Star, l’opera rivisitata in chiave moderna, lo sport. Il tennis.
Se dall’Italia andate a Parigi in treno avrete due possibilità, TAV o non TAV: o siete classe media che fa un sacrificio e quindi si ferma alla Gare de Lyon insieme a tutti i benestanti che fanno i pendolari, perché signora mia Parigi, ah Parigi; oppure siete dei ragazzetti con zaino e sacco a pelo che prendono un terribile treno della notte che arriva all’alba e si ferma quache centinaio di metri più in là, alla Gare de Bercy. Agli inizi di novembre, se passate da Parigi di ritorno da chissà quale tentativo frustrato in una parte di Francia che solo voi conoscete, in attesa di prendere il treno che vi riporta in Italia non potrete fare a meno di cadere in un bistrot con tutti i luoghi comuni del caso. Il bistrot è di fronte ad un parco la cui vista è ostruita da questo gioiello architettonico (come no) pronto a riempirvi di luci. Fuori, gigantografie di uomini ingrugniti con una racchetta in mano, vi spiegheranno che si sta disputando un torneo di tennis. E mica uno qualsiasi. Non sarà uno slam, ma è giusto uno di quelli che viene appena dopo: un Masters 1000. Addirittura l’unico che il circo tennistico gioca al coperto, preferendo, quando è in giro per il mondo, l’aria pura del deserto statunitense, della città di Montréal, dell’altura di Madrid, di Roma. A Parigi no, tutti dentro ad un palazzetto, mentre fuori pioviggina e dal bistrot si vedono passanti che sbucano dalla Rue de Corbineau, come diligentemente ci si appunta sul tovagliolo di carta.
Dentro, se mai decidete di andare, appena passato quello che sembra l’atrio di un cinema, o di un teatro se siete tra quelli inutilmente colti, finirete in una specie di corridoio con delle porte, proprio come quelle che portano ai palchi quando andate all’opera. Solo che se aprite quella porta vi ritroverete in una bolgia stile film yankee sulla boxe. In lontananza vi sembrerà di scorgere un ring ma, mentre avanzate evitando popcorn e bicchieri di carta pieni di roba di cui non volete davvero sapere la provenienza, vedrete che i due lì in fondo sono divisi da una rete. Giocano a tennis. Se c’è Federer, come al solito, si alzeranno gli “ooohhhh” di meraviglia pronti a scattare non appena lo svizzero si aggiusta il ciuffo; se c’è Nadal non capirete se urla davvero tanto o se si è improvvisamente abbassato il brusio del pubblico. Se c’è un francese rassegnatevi a quegli insopportabili “poppoppoppopoporopò” seguiti da misteriosi “olè”.
Quando tutti avranno finito e resteranno le carte colorate, in genere resta il tempo per scendere qualche altro gradino e piazzarsi a bordo ring, o quello che è, per l’ultima partita della serata. Ché in fondo sono pur sempre due tra i primi venti del mondo, non proprio gli ultimi arrivati. Ma il tennis è uno sport terribile, contano solo i primi cinque e neanche sempre. Ma ci si può accontentare del suono della pallina sulla racchetta o del composto rammarico di un ragazzone dell’est, che altrove sarebbe stato un urlo belluino, ma qui siamo in pochi, non vale la pena. La corsa di quello che pare non fermarsi mai, frenetico e con lo sguardo che tradisce i giorni, i mesi, gli anni passati in club tristemente eleganti a tirare sempre lo stesso colpo, a farlo diventare sempre più preciso, a piegarsi come mille altre volte e allo stesso modo di mille altre volte. La possibilità di vedere la partita insieme al clan di allenatori, fisioterapisti, forse mental coach, che vanno tanto di moda e si arrabbiano perché in pochi capiscono quanto sarebbero importanti. O forse perché non sono convinti di essere poi così importanti. Li immagini al bistrot, al pub, alla cantina, all’osteria, ogni giorno uguale all’altro come ogni dritto è uguale al precedente e ogni servizio si ripete sempre uguale, come la musica andina, diceva il bolognese in versione anni ’70. Tra le retoriche metafore e le lettere da scrivere, magari la frustrazione è eccessiva, si può sempre tornare in quella parte di Francia, niente finisce mai veramente, comincia persino un doppio, ma non è il caso di esagerare.
Si torna al bistrot, il tempo della birra, dello sguardo al programma di domani, quando si sarà altrove. Il rimpianto perché poi qualcuno chiederà del Louvre, le piramidi, i gargoyle, Places des Vosges, la Defense, la Senna e non si finisce mai, però si cresce, alla fine uno impara a difendersi, “sono stato solo a Bercy, forse il luogo più interessante di Parigi”. Peccato non averlo visto, e se ci si fosse fermati si sarebbe continuato a non vedere.
Giocheranno ancora a Bercy, qualcuno fermerà Djokovic o forse no, vincerà Murray se non pensa alla Coppa Davis, Federer si starà riposando per il Master però magari nel frattempo vince, Nadal risorge del tutto e si rade i baffetti, Wawrinka è nella giornata che ha voglia di puntarsi il dito nella tempia, Nishikori non si infortuna, Gasquet si muove dai teloni, forse vogliono solo smettere, ma smettere veramente.
Il treno parte tardi, c’è il tempo di terminare la lettera. Fuori è tutto pioggia, pioggia. E Francia.