Abbiamo problemi con la gente.
By Roberto Salerno Posted in monografie on 6 Giugno 2022 5 min read
Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari.
“Sai, penso di essere pronto”. L’anno era il 2016 il mese era luglio e il luogo non poteva che essere Wimbledon, il giorno dopo non so che celebrazione l’All England Lawn Tennis gli aveva dedicato. Non ero andato e quindi le doverose congratulazioni in sala stampa le ho fatte il mattino dopo, approfittando del fatto che, almeno nell’ultimo scorcio della sua vita, aveva trovato motivo di divertimento nell’interagire con sconosciuti che il web aveva portato fino alla sala stampa di uno Slam, niente meno.
Sentito in televisione a poco a poco mi aveva incuriosito, superando il fastidio per quell’accento troppo marcato che piace tanto ai meridionali, ma non a tutti. Gli articoli su Repubblica in quei tardi ’80 erano dei gioielli, ve lo diranno in molti e credo che per una volta sia vero, anche perché le due colonne, la 3000 battute erano il suo spazio ideale. Ricordavano quello che diceva Oscar Wilde delle sigarette “sono piacevoli e ti lasciano un senso di insoddisfazione” perché avresti voluto che l’articolo fosse più lungo. Appassionato di tennis fino ad un certo punto, il racconto delle partite, di pezzi di partita, ricordava vagamente Carver, ma complice il tennis scorrevano via più leggeri.
Si cominciarono ad aspettare gli Slam per leggere gli articoli, le telecronache restavano sullo sfondo ed era vero che qualche partita la si vedeva lo stesso, nonostante la noia degli scambi, per ascoltarlo un po’. Più che gli aneddoti, che crescendo cominciarono ad essere troppo ambigui per apprezzarli fino in fondo, la meraviglia era la competenza probabilmente figlia di una passione per l’ambiente più ancora che per il gioco stesso che però gli piaceva più di quanto fosse disposto ad ammettere.
Uomo ricco di famiglia, la telecronaca lo stufava presto ma una cuffia e un microfono non sono troppo impegnativi, puoi prenderla con sovrano distacco. La scrittura no, smetteva di scherzare e odiò – sbagliando – l’unanime plauso di cui godette l’ormai famigerato David Foster Wallace. Ma per quanto bellissimi furono gli articoli la stessa cosa non si può dire per le incursioni nel romanzo e persino nei racconti. Lo stile, impeccabile sul breve, si imbarocchiva col passare delle righe fino ad essere seguito con una certa difficoltà e non raramente abbandonato al suo destino. Non è un caso che l’avvento della letteratura cambiò anche i suoi articoli, che complice l’età che avanzava divennero meno perfetti, con la sua figura che giganteggiava fino però ad ostruire la visione, come disse Francesco Rosi di Nanni Moretti.
Ma era ormai arrivato ad un’età in cui tutto si perdonava, e c’è da dire che accolse l’ingresso nella leggenda in vita con un distacco che nell’alta borghesia è più raro di un serve and volley al Roland Garros. Probabilmente lo aiutarono la televisione e proprio questi sconosciuti che cominciarono ad accerchiarlo negli Slam per una sua parola, poi il selfie, ed una certa pacificazione dovuta all’incedere degli anni. Ciò non toglie che da giovane non dovesse essere semplice, a dar retta alle bestemmie che arrivavano dal desk dietro, immancabili quando un file non si apriva o una mail tornava indietro per qualche errore di digitazione.
In Australia nel 2013 (“Non so se andare” “ma scherzi? potresti conoscere Clerici!”) ebbi anch’io il mio “Clerici Giovanni, piacere, ma dammi del tu” e i miei bravi aneddoti, complici qualche pausa pranzo e un’età non troppo giovane che mi salvava da eccessive timidezze. Così Melbourne Park l’aveva sostanzialmente costruito lui, l’amicizia con Brera, la noia per il tennis che vedeva ora, Federer e Freud, le battute a Djokovic e con Djokovic, l’attesa di Del Piero che veniva da Sydney per farsi intervistare “alla mia età ancora a fare queste cose”. E quella finale vista assieme a serbi usciti dritti da chissà quale luogo comune e film di Kusturica con i lamenti per gli applausi durante il gioco e fischi all’avversario. “Vai a dirgli di smetterla!” Ma chi, io? Ehm…
Ogni tanto tirava fuori il grande articolo, quasi a ricordare che insomma non avrò più voglia ma io ero questo qui, lasciate perdere. La consuetudine della metà degli anni ‘10 ed una certa tendenza ad annoiare, mi valsero l’appellativo di “professore” che immagino condividere con chissà quanti altri ben prima de “La casa di carta”. Gli anni passavano e l’ironia diventava sempre più luciferina e come sovente capita nelle persone anziane non troppo lontana da una cattiveria, certo sempre molto elegante. “Sua madre era una mia buona amica e mi diede un suo articolo per avere un parere. Cosa mai puoi dire del figlio ad una madre? Visto che ne ha fatto un mestiere forse non avrei dovuto” O quella tennista così carina con “genitori così garbati e gentili che l’hanno cresciuta benissimo, peccato che l’intelligenza non gliel’abbiano trasmessa tutta, a vederne i fidanzati”.
In non ricordo più che bar di Wimbledon riuscii a rimediare un paio di birre perché “lei adesso non mi crederà ma questo è Gianni Clerici, guardate che è più importante di Federer e io sono con lui eh? ci siamo pure scambiate delle mail” perché gli inviati sono sempre degli straccioni e hanno i soldi contati, ma appunto “i soldi li ha fatti mio padre, io li ho spesi”.
C’è molto altro naturalmente, quella mattina del premio a Wimbledon rispose ai complimenti dicendo “è un premio per essere ancora vivo”. Beh, l’alternativa era peggiore, no Gianni? “Sai, penso di essere pronto”.