Abbiamo problemi con la gente.
By Claudio Giuliani Posted in recap on 12 Luglio 2021 7 min read
Tra qualche settimana, alla cerimonia del sorteggio del tabellone maschile degli US Open 2021, gli occhi di tutti andranno alla ricerca del nome del tennista che potrebbe impedire il Grande Slam.
Ci saranno tutti i nomi dei più forti tra i papabili: Medvedev, per forza, Nadal, va da sé, Tsitsipas, Zverev, Berrettini: perché no? Ma chissà, magari dalle brume del tabellone spunterà il nome che non ti aspetti, il tennista la cui vittoria contro l’Imbattibile Novak Djokovic pagherà 10, 15 volte la posta giocata. O, più probabilmente, non ci sarà nessuno ad opporsi alla tirannia di un tennista che ha preso ispirazione dai due mostri sacri del tennis contemporaneo e che, a breve, molto a breve, li metterà dietro di sé nella classifica che conta di più.
Scrivere di qualcosa che avverrà tra più di un mese, in un articolo che dovrebbe raccontare una finale Slam, è forse poco elegante, specie per lo sconfitto, ma quale persona sana di mente avrebbe potuto anche solo ipotizzare che un tennista con il rovescio di Berrettini potesse fare partita, figuriamoci vincere, sul campo più prestigioso, contro il più forte tra i più forti?
Ignoriamo volutamente, più per compassione che per grazia, le analisi che si sono fatte nelle ultime 48 ore nel Belpaese, dove si è cercato di presentare come equilibrata una partita che, dati alla mano, non poteva che andare com’è andata: tre set a uno per Djokovic, con il set vinto da Berrettini nel quale il serbo ha sprecato un setpoint quando era in vantaggio per 5 a 2.
Matteo Berrettini ha una grande qualità: è decisamente convinto di potersela giocare con i più forti. Chiamatela ingenuità, oppure vanità, quello che volete, ma la decisione con cui è sceso in campo, almeno fino alla finale, è quella di chi si è preso un posto tra i migliori al mondo e non ha intenzione di cederlo.
Prendete proprio l’ottavo game del primo set: Berrettini è sotto di un break, 5-2, e serve per allungare almeno un po’ il set. Fin lì, Matteo stava giocando in preda alla tensione, il serbo invece stava svolgendo il compitino, il minimo necessario per iniziare bene la finale. Ad un certo punto Djokovic ha cominciato a far partire i colpi, uno come lui sa quand’è ora di spingere sull’acceleratore e quando si può mettere in folle e aspettare che le cose succedano da sé. Avete presente Shapovalov? Ecco, l’esatto opposto. Eppure, nonostante gli errori, le esitazioni e i colpi timorosi, Berrettini è riuscito a vincerlo quel game, ben sapendo di essere praticamente spacciato.
Ma chi vuole essere un campione, sa che è su quel praticamente che si vincono le partite più dure. E di fatti, l’interminabile game del 5 a 3 era il punto di svolta del match, almeno fin a quel momento. Improvvisamente, i dritti di Matteo non uscivano più, le prime finivano nel rettangolo del servizio e il rovescio scavalcava la rete senza far sussultare i suoi tifosi. Matteo era finalmente in partita, raggiungeva il tiebreak e oramai libero da condizionamenti andava subito in vantaggio per 3 a 0. Djokovic non sembrava neanche tanto indispettito, come se fosse consapevole che quello fosse il dazio da pagare per la vittoria finale, perdere un set che peraltro aveva praticamente vinto. Non c’era la rimonta: il primo set della finale di Wimbledon era di Berrettini, incredibile.
Figurarsi se Djokovic poteva farsi intimorire da un set perso. D’altronde, neanche lui aveva giocato bene nel primo parziale. L’avesse vinto, forse sarebbe finita tre set a zero. Ma chissà. Il secondo set è stato un autentico assolo di Djokovic. Ha conquistato il break al primo game liberando dalla tensione i suoi colpi da fondo; adesso i suoi dritti e rovescio filavano forti e finivano dentro le righe, il ritmo era insostenibile per Berrettini, che subiva un altro break. Sul 4 a 0, Novak scendeva di marcia, l’azzurro recuperava un break ma il serbo era solido nel chiudere per 6-4. L’impressione, però, è che Berrettini arrivava spesso con un pizzico di ritardo sui colpi di Novak: se gli scambi di allungavano, Matteo non ne vinceva più uno.
All’inizio del terzo set, Matteo era devastante col servizio. Djokovic però era in modalità robot: non c’era spazio per distrazioni, dimenticava gli ace di Berrettini e concretizzava le occasioni non appena riusciva a procurarsele. Una di queste arrivava sull’1-1, era il break che avrebbe deciso il set. Djokovic era bravo a far giocare male l’azzurro, la qualità migliore del serbo. Inoltre, Novak tornava a fare punti diretti con la prima. Salvava due palle break per Berrettini servendo sul 3 a 2. Dopo aver annullato la seconda, si rivolgeva al pubblico dicendo “non vi sento ora”. Lo stava sfidando, in quel momento il serbo aveva abbandonato la calma serafica per aggiungere avversari a Berrettini. Quasi non bastasse a impegnarlo. Il serbo vinceva il terzo set per 6-4.
Berrettini a questo punto doveva scuotersi, cambiare qualcosa. Iniziare a servire nel quarto set un po’ lo aiutava. Però Djokovic dava sempre l’impressione che avrebbe potuto aumentare la velocità, che non si stava ancora sprecando, che magari stesse conservando energie per un improbabile quinto set. Anche se Matteo andava sempre avanti nel punteggio tenendo con autorevolezza i suoi turni di battuta, Novak sembra capace di segnare le sorti del match in ogni momento.
Quadno ad esempio Novak si è trovato 0-30 servendo sotto per 2 a 3, ha fatto un recupero di rovescio che ha sorpreso Berrettini. Cose da Novak, cose già viste da tutti ma che stupiscono ogni volta, fatte poi in quella situazione di punteggio. Come se l’aver vinto il 15 non fosse stato già troppo, Djokovic urlava la sua rabbia. Era il segnale.
Nel game seguente conquistava il break e si portava in vantaggio per 4 a 3 e servizio. Due turni di battuta e lo Slam numero 20 sarebbe stato suo. I suoi tifosi potevano finalmente prendersi la scena con il loro “No-le No-le”, troppe volte soffocato dal “Mat-te-o Mat-te-o” che dominava gli spalti del campo centrale. Non c’erano più sussulti, nessun colpo di scena arrivava a rovinare la festa di Novak, che riusciva a vincere un altro game con Berrettini al servizio chiudendo per 6-3 il quarto set, era tempo di sdraiarsi a terra e di mostrare, finalmente, un sorriso al pubblico di Londra.
In neanche un anno, Djokovic è riuscito a colmare quindi il divario di Slam con i suoi due avversari storici.
La foto di quella giudice di linea colpita da Djokovic agli US Open 2020 durante il match contro Carreno Busta è ancora viva nei nostri ricordi; uno Slam che Novak avrebbe probabilmente vinto e che invece ha perso sciaguratamente è stato l’abbrivio di questa manifesta dimostrazione di superiorità tennistica che è il 2021.
Quello US Open perso, un vero e proprio colpo di stato, ha dato forza e consapevolezza ai Thiem e agli Zverev, almeno così si pensava, ma poi è bastato iniziare l’anno per capire che, invece, Djokovic li avrebbe fatti sentire impotenti ad ogni occasione importante. Che avrebbe concesso loro l’illusione di farcela, di essere ogni volta più vicini a battere il numero uno del mondo, l’uomo dei record.
Perché Novak è così, non vince le sue partite surclassando l’avversario; la sua supremazia è celata dietro una finta democrazia di gioco: lui dialoga con tutti, fa esprimere a tutti la propria opinione e poi, alla fine, spiega i motivi per cui gli altri hanno torto, perché è giusto che sia lui a vincere la partita.
Così, demolendo Medvedev in Australia, dando un vantaggio di due set a Tsitsipas a Parigi e rimontando un set a Berrettini a Londra, Djokovic è arrivato a luglio con tre vittorie Slam. Ancora una volta, la sua legge è stata rispettata.