Abbiamo problemi con la gente.
Tre mesi senza un match point non si erano mai visti. Nessuno che piange, nessuno che trema, nessuno che critica Kyrgios, nessuno che dice quanto è bello Federer. Uno strazio, diciamolo pure. Al quarto mese, con il grande pubblico più interessato ai contagi giornalieri in Svezia che a chiedersi perché andare a Parigi quando piove, qualcosa si doveva pur fare.
Ci ha pensato uno di questi personaggi che vedete inquadrati sempre in tv ma mai all’interno di quei ventitré metri per quasi undici che delimitano lo spazio in cui i giocatori si prendono a pallate. Questo folto sciame, composto da parenti, ex giocatori che niente sapevano fare prima e niente sanno fare ora, allenatori che loro sì che ne capiscono di psicologia, guru solenni che neanche Sean Penn in un film di Sorrentino, in genere produce uno spettacolo fondamentale per uno sport che ha più tempi morti che vivi.
Dietro a occhiali da sole da chissà quante migliaia di dollari, impassibili abbronzati e pettinati benissimo, mostrano il pugno e manifestano serenità a seconda delle circostanze. E, quando tutto è fermo, quello più alla moda, tale Patrick Mouratoglou noto per essere al fianco di un sacco di gente cool, si è preso la briga di “innovare” il tennis. Niente di meno.
Non che gli sport rimangano uguale a loro stessi, in fondo un antico adagio sostiene che in 150 anni di calcio l’unica cosa rimasta la stessa dell’inizio è la forma del pallone, ma certo una cosa sono gli aggiustamenti, un’altra prendere due con la racchetta, una rete in mezzo e fargli fare chissà cosa. Le partite che abbiamo visto (noi e un’altra decina di persone a occhio) in questo week end sono imparentate col tennis appunto per via del fatto che come quello si giocano con le racchette, le palline e la rete in mezzo e che a giocare siano stati atleti che in genere, quando il mondo sembrava già fuori di testa ma non così, si sfidavano a tennis.
C’è il giocatore che batte, c’è la palla che deve finire all’interno del “rettangolo di battuta”, ci sono i falli di piedi e se la palle batte due volte per terra prima che l’altro la prenda è punto. Il resto è un’altra cosa. Si gioca a tempo, e cioè in quattro quarti da 10 minuti come nel basket e vince il quarto chi fa più punti. C’è la sirena quando il tempo scade ma il punto si può finire – se è in corso ovviamente – c’è il coaching su richiesta, rispondere ai fan e ai giornalisti via cuffia alla fine del quarto, ci sono delle carte-jolly a inizio quarto selezionate da un algoritmo che possono darti un extra palla in battuta per cercare l’ace, o togliere una palla in battuta all’avversario, o a triplicare il valore del tuo vincente, se lo fai più altre cose. Che già a ricordarsele tutte vien voglia di passare al curling, se non l’hai già fatto. Il nuovo lavoro del coach in questa versione del tennis che saluta la strategia e la tattica, sarebbe proprio quello di reggere le carte e far finta di aver capito quando giocarsele. Una roba che non potrebbe neanche paragonarsi allo scopone scientifico tanto è molto più difficile. Lo scopone, s’intende.
Mouratoglou sembra essersi destato come un Savonarola qualsiasi perché, dice lui, “il pubblico del tennis è vecchio, l’età media di chi segue il tennis è sui 60 anni e i giovani non seguono sport che hanno 20 minuti di pausa”. Per questo, all’Ultimate Tennis Showdown è stato proibito anche il riscaldamento pre gara. Capiamo benissimo che sempre di esibizione si tratta, anche se Patrick ha già parlato di “sedersi al tavolo con ATP e WTA e parlarne”, ma pensare di avvicinare pubblico giovane, che dovrebbe oltretutto pagare per lo streaming, a questa competizione che ricorda il tennis e che ha molte più complessità del tennis (a cominciare dal capire i sottopancia del punteggio-cronometro-card) come è conosciuto da tutti, ci pare a dir poco ardito. Non serve ricordare la fine che fece Savonarola, anche se visto che lui aveva ragione hai visto mai che il dinoccolato Patrick faccia una fine migliore.
Anche perché se il tennis deve trasformarsi solo per volere delle TV che hanno difficoltà a organizzare palinsesti per uno sport che inizia una partita senza sapere quando finisce a differenza di tutti gli altri, allora tanto vale lasciarlo così com’è. Ma d’altronde questo sport non riesce neanche a decidersi a eliminare il tre su cinque negli Slam, che è divertente solo se ci sono i soliti tre fenomeni in campo, altrimenti il più delle volte questi set sono autentiche altrimenti altro che pause, sono proprio interi set a rappresentare pause e tempi morti. Giocarsi tutto al meglio dei tre set alzerebbe concentrazione e qualità del gioco senza dubbio. E i tornei dello Slam sono quelli col montepremi più alto e quelli più seguiti dai fan.
Vi piaccia o meno tutto quanto avete letto fin qui la cosa che salta davvero agli occhi è la crisi di uno sport che negli ultimi 5 anni ha dato l’impressione di essere un morto che cammina, aggrappato alle vicende di tre “immortali” in linea con il loro tempo, che però forse è finito insieme a loro. Non è più tempo di monomaniaci che dedicano tutta la vita ad inseguire una pallina, perché al di là di tutto sono gli stessi stili di vita ad essere cambiati.
Si stava 4 ore davanti ad una partita perché obiettivamente non è che ci fosse molto altro da fare, al limite leggere un fumetto o guardare un telefilm. Ma ora che i telefilm sono dei serial di alto livello, che si può giocare con 1000 persone stando comodamente nella propria cameretta, magari ascoltando musica e scaricando film se proprio vuoi, tanto vale andare a fare due scambi. Ma guardare una cosa che ti promette “dai, dura poco, finiamo in fretta, resta con noi” è la supplica di chi, abbandonato dal partner, implora un’ultima possibilità.
Serve ricordare come finisce?