Abbiamo problemi con la gente.
By Salvatore Termini Posted in monografie on 18 Maggio 2019 6 min read
Quello che noi dovevamo dire su Nicholas Kyrgios l’abbiamo detto in almeno quattro occasioni e non ci sono particolari motivi per ritornarci. L’ultima impresa dell’australiano, l’abbandono del match contro Casper Ruud con conseguente sedia volante scagliata al centro del campo, poco aggiunge e niente toglie alle considerazioni sul vero fenomeno tennistico della seconda metà degli anni ‘10 del 2000.
Kyrgios rimane quello che può serenamente battere Djokovic ovunque e perdere contro Struff e Ruud senza neanche aspettare di finire la partita. Questo il Kyrgios del campo. Quello fuori dal campo è un distillato di intelligenza e sensibilità, del tutto scevro da ipocrite considerazioni di comodo.
Il podcast che potete trovare in giro, realizzato in collaborazione di un giornalista del New York Times, mostra una volta di più un 24enne anomalo solo per la bolla dentro cui vive il mondo del tennis, non certo per il mondo normale. Kyrgios dice tranquillamente di Djokovic quello che tutti pensano e nessuno ha il coraggio di dire, che è ossessionato dal fatto di non piacere abbastanza, e che potrà vincere tutti gli slam che vuole ma solo approfittando del fatto che gli altri o sono in calo o sono come lui, non hanno tanta voglia. Spiega come vincere uno slam non servirebbe certo a renderlo felice e che chissà, magari i suoi comportamenti tradiscono un qualche recondito malessere psicologico, cosa che sarebbe bene ricordare vale per ciascuno di noi, anche se siete arrivati a 40 anni e non lo sapete. Inutile poi riassumere le perfette considerazioni su Verdasco, sull’inutilità delle vittorie, o i complimenti a Federer e Murray, ovviamente.
Ma complice l’aria di casa nostra, si è aperto un dibattito tutto sommato interessante sui diritti dei guardoni, in definitiva cioè di tutti noi. Tralasciando posizioni rozze – quelle dei rancorosi assetati di sangue – o infantili – quelle di chi pensa che dei chirurghi importa che sappiano operare e non che siano simpatici – si fronteggiano due modi di intendere la propria partecipazione agli eventi sportivi, che implicano considerazioni non banali sul rapporto con lo sport, e forse qualcos’altro, in questo scorcio di secolo.
In buona sostanza da una parte ci sono quelli che dicono che Kyrgios ha tutto il diritto di andarsene, tornare, giocare con la sinistra, battere da sotto, addormentarsi e scambiarsi messaggi durante il match, non essere particolarmente interessato al tennis; è il suo lavoro, a chi verrebbe in mente di andare a dire a qualcun altro come deve svolgerlo? E noi spettatori dobbiamo stare nel nostro, andare a vedere, applaudire quando c’è da applaudire, fischiare quando c’è da fischiare, null’altro.
Dall’altra ci sono quelli che sostanzialmente dicono “che peccato, potremmo vedere delle cose bellissime e invece questo ragazzotto ce le nasconde. Non è giusto”. Considerato che siamo da sempre a favore della prima – la sindrome da collezionista di slam ci pare più una patologia che un modo sano di intendere lo sport e in definitiva la vita – ci pare corretto prendere sul serio la seconda: abbiamo il diritto, noi “mendicanti di bellezza”, di chiederla a chi può offrircela, questa bellezza? Nick Kyrgios davvero non ha questa responsabilità nei nostri confronti?
Prima di abbozzare una risposta a questa domanda però crediamo che sia necessaria farne una preliminare. Perché mai la nostra posizione dovrebbe essere così rilevante? Cioè perché riteniamo che il pubblico “conti” qualcosa? Anche in questo caso evitiamo di spendere troppe parole su una spiegazione alquanto rozza, quella che siccome paghiamo allora pretendiamo. Concentriamoci piuttosto sull’idea che l’evento sportivo vive della partecipazione degli spettatori, che palpitano, incitano, fischiano, insomma: partecipano all’evento agonistico. E che quindi, visto che siamo tutti quanti all’interno di un ruolo, sforzati di svolgere il tuo al tuo meglio, per rispetto di tutti noi.
Come si comprende è una posizione del tutto irrazionale. Il “pubblico” non è un’entità che si muove in modo uniforme e che ha una volontà univoca. Si divide e quasi mai grossolanamente, rispettando le sfumature di ognuno di noi. C’è quello che segue col pathos l’intero match senza perderne un “15” quello che a malapena aumenta l’attenzione durante il set point, quello che è andato a vedere il tizio di cui tutti parlano ma che faticano a capire il punteggio, quello che non sapeva dove portare il fidanzato eccetera.
Per quanto Kyrgios sia capace anche di questo, capita raramente che il giocatore pretenda dal pubblico il rispetto del suo ruolo, cioè quello di assistere e sospirare. Se ne deduce che forse parlare in nome del pubblico non è una grande idea, e farebbero bene i difensori di questa posizione a definire meglio il soggetto di cui stanno parlando. Si accorgerebbero senza neanche sforzarsi troppo che di loro e soltanto di loro si parla. E quindi dovrebbero modificare un po’ la domanda di partenza: la domanda “Nick Kyrgios ha o no delle responsabilità verso il pubblico”, si trasforma quindi in una più corretta e alquanto rivelatrice: “Nick Kyrgios ha o no delle responsabilità verso di me?”
Questo passaggio consente di rispondere con molta serenità alla domanda di partenza, perché è ovvio che Nick Kyrgios non ha nessuna responsabilità nei miei confronti, e non c’è ego ipertrofico che tenga, visto che pure lui, l’ego, ha un limite nel senso del ridicolo. Ma ciononostante alcuni di noi continuano a ritenere che non sia giusto che Nick non ci faccia divertire, ma come vogliamo noi, divertirci, non come dice lui. Questo però è ovviamente lavoro da specialisti, perché richiama il nostro investimento emotivo su quella che alla fine è una partita di tennis. SIamo proprio sicuri che sia una cosa sana andare a chiedere ad un ragazzo di 24 anni di farci divertire esattamente come piace a noi?
In molti hanno affrontato dall’altra parte della barricata – quella di chi doveva qualcosa – questo rapporto che si crea tra parte del pubblico e “artista” ma la sensazione è che mentre i cantanti siano naturalmente più attrezzati per difendersi – “chiedo scusa a vossia ma non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni o si possa far poesia” – tanto da poter concludere “non comprate i miei dischi e sputatemi addosso”, sugli sportivi il bersaglio sia più facile.
Poche letture, un ambiente che alla fine un po’ condivide queste inverosimili pretese, la tranquillità che si perde, il senso di colpa che arriva. E, alla fine, l’idea che se tutti fanno così magari hanno ragione. Roba da psicologi appunto, e noi più modestamente ci limitiamo a far notare quelle che ci sembrano delle curiose incongruenze. In fondo stiamo parlando di tennis, cioè di quello che è una forma di intrattenimento. Come dice Nicholas Kyrgios.