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Lettera ad una hater

Solo noi che ti amiamo possiamo capirti.

Solo noi che ti amiamo possiamo capirti.

Se avessimo la pietà di Gesù, invocheremmo il padre per chiedere perdono per la loro blasfemia. Come si può definire altrimenti l’odio per lo sport più bello del mondo?

Solo un portatore più o meno sano di odio può avercela col tennis. Peccano perché incapaci di comprendere, abbagliati dalle culture peggiori del sudore, la pallavolo, il basket, il nuoto ma soprattutto le palestre. E dire che noi, gli illuminati, pure siamo per l’integrazione: raccontiamo le storie di questo sport, presentiamo i nuovi protagonisti della televisione e spieghiamo pure perché, quando contiamo i punti, da trenta passiamo a quaranta, perché l’amore è anche curare la fonetica nel punteggio.

Noi siamo con le braccia aperte, siamo la religione dell’accoglienza, pratichiamo il nostro rito all’aperto e chiunque può accostarsi e vedere, capire, respirare la nostra aria e ascoltare i suoni del nostro sport. Loro sono i carbonari, gli jihadisti che si radunano in scantinati mascherati da palestre nei quali toccherebbe anche pagare per entrarci, figuriamoci. Noi di palestre conosciamo solo quelle con le vetrate prospicienti i campi rossi e ci entriamo solo per scaldare le gambe dieci minuti prima della messa.

Le obiezioni dei miscredenti sono sempre le stesse: lo sport che si gioca da soli; il silenzio irreale in un mondo che ha imparato a parlare e che ora grida; la concentrazione prolungata, quando la soglia dell’attenzione è ormai più breve della durata media di un coito; le pause, quando il tempo è denaro, signora mia; il punteggio difficile da seguire invece di fare chi fa più punti in mezz’ora e buonanotte; la fine che, a contrario di quello che si vorrebbe, non è nota.

Ve la facciamo breve: quello che non capite è che giocare significa sopravvivere. Siamo talmente arroganti che gli inglesi, che questo gioco l’hanno inventato, chiamavano i vincitori delle prime partite survived, sopravvissuti. Perché se fai nuoto il tuo nemico è un cronometro, se giochi a tennis il tuo nemico è una persona. Vincere è vivere, perdere è morire, figurativamente lo sappiamo, ma solo quando siamo fuori dal campo ce ne rendiamo conto. La Boxe, ecco la boxe assomiglia al nostro sport, in una versione più rozza e con meno pensiero ovviamente.

Quando noi giochiamo il nemico è sempre nel nostro sguardo, di fronte. Vediamo che anche lui ci scruta alla ricerca di qualche indicazione utile studiando il nostro linguaggio del corpo. Noi facciamo la stessa cosa, sempre. Ascoltiamo cosa dice a sé stesso, cerchiamo di decifrare il suo codice verbale e fisico come se avessimo un reparto di intelligence a disposizione pronto a riferire al supremo capo, noi, il Presidente, per facilitare la decisione migliore nell’interesse supremo in quel momento, il nostro.

In questi frangenti, siamo soli ad analizzare, decidere e prendere la decisione migliore. Non c’è nessuno che ci aiuta, non un istruttore a correggere le nostre azioni o un allenatore ad indirizzarci, non c’è neanche lo sguardo rassicurante e incitante dei compagni di squadra: siamo solo noi a decidere dove correre mentre pensiamo a cosa fare quando arriveremo là per poi decidere di nuovo dove spostarci. Solo l’avversario, che pure ha i nostri stessi pensieri e la nostra stessa missione, può aiutarci. E quando lo fa noi festeggiamo, fanculo l’humana pietas dei cristiani, il nostro credo è “Show no mercy” degli Slayer.

E quando la contesa finisce, quando uno esce sconfitto e l’altro rilascia le endorfine liberando nell’aria l’odore della vittoria, ecco quell’odore è anche l’odore del superstite. È questa primordiale lotta per la sopravvivenza all’interno della stessa specie che alimenta il fuoco sacro dentro ogni tennista. Per questo riusciamo allo stesso tempo, in maniera diversa, ad emozionarci per una volée di Federer o a gioire con Simon quando vince uno scambio di 71 colpi. Che sia stato di audacia o di resistenza, l’uno ha prevalso sull’altro.

La visione di una partita in televisione serve ad alimentare il fuoco sacro dentro di noi, come le preghiere dette a casa prima di passare dal tempio. Perché mentre noi giochiamo riscaldati dal tiepido sole di febbraio, i nostri beniamini giocano a Buenos Aires, dove la terra è già arancione e dove siamo in ansia per Carballés-Baena, Diego Schwartzman e João Sousa. I lottatori che cercano di prevalere, di risultare migliore degli altri fino a quando uno solo si sveglierà al mattino senza avere più avversari da battere.

E se invece preferiamo l’aspetto più estetico del tennis, allora guardiamo i tornei indoor in Europa, che in questo periodo sono anche più belli perché non ci sono i soliti vincitori. Ma se Stan e Benoit giocano contro non è forse un dovere morale accendere uno schermo? Certo che lo è, è un obbligo che esula dalle regole degli ambienti, perché vivere e morire con loro lo facciamo seduti sul divano di casa o imboscati in qualche anfratto dell’ufficio.

E se il tennis è difficile da spiegare a chi non lo comprende da amatore, pensate un po’ quando più difficile diventa il compito quando uno si impegna nel sacro mondo dell’agone. Come possiamo far capire a chi ci odia che i sentimenti delle partite normali vivono un surplus di adrenalina quando c’è di mezzo il torneo? L’allenamento è dibattimento, le parti che espongono le loro ragioni; il torneo scrive le sentenze.

E alla fine, se davvero questo non ti interessa, il problema sei tu.


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