Abbiamo problemi con la gente.
By Claudio Giuliani Posted in recap on 27 Gennaio 2019 7 min read
Doveva essere l’Australian Open del nuovo inizio, del nome nuovo, della sorpresa. Alla fine è stato il solito torneo, vinto dall’unico reduce integro dei Fab 4, cioè Novak Djokovic, che è tornato a dominare il tennis come se il 2017 non fosse mai avvenuto. Se i segni dell’età sono ben riconoscibili sulle movenze di Roger Federer e Rafael Nadal, per non dire di Andy Murray, ormai chiamatosi fuori, per il tennista serbo non si ravvisano crepe nel muro della sua integrità fisica.
Il tanto auspicato ricambio generazionale, quindi, non c’è stato, ma perché? Ha risposto il torneo a questa domanda, certificando il calo di Federer, mostrandoci un Nadal tornato competitivo sul cemento dopo un lungo stop di mesi e ripresentandoci un Novak Djokovic sùbito in forma, temprato inoltre dai due set persi per strada, contro Medvedev e contro Shapovalov, prima della finale. Ed è qui che, finalmente, abbiamo potuto testare la reale condizione di Rafael Nadal, giunto alla seconda domenica di Melbourne senza aver mai perso un set e quindi senza mai essere impegnato. E se Federer e Nadal sono oramai in calo fisico da anni, lo stesso non si può dire per Novak Djokovic, andato solamente in pausa mentale dal tennis prima del suo poderoso ritorno nella seconda parte del 2018. Come potrebbe spiegarsi altrimenti una sua sconfitta contro Benoit Paire?
La finale non ha fatto altro che confermare quello che era già percepibile da chi non ha mai abboccato alle favole sul miglior Nadal di sempre sul cemento o sui presunti poteri magici del nuovo servizio dello spagnolo. Bastava poco per capire che, sebbene all’inizio Nadal abbia giocato in maniera più contratta, Djokovic non avrebbe mai potuto perdere la finale degli Australian Open perché era, semplicemente, più forte del suo avversario in qualsiasi zona del campo.
Nadal rincorreva lentamente i rovesci di Djokovic, il quale copriva il campo senza sudare, vincendo il primo set e soprattutto 20 punti su 21 alla battuta: imbarazzante. L’unico momento della partita nel quale Rafa sembrava poter comandare lo scambio era quando indirizzava la palla alta e profonda sul rovescio di Nole, che per non perdere campo incontrava di controbalzo restituendo una palla lenta e di solito centrale: peccato che Rafa falliva più volte il colpo risolutore con il dritto, spesso di pochi centimetri.
Il “nuovo” servizio ammirato durante il torneo, poi, non si rivelava efficace in finale: Djokovic era aggressivo fin dalla risposta e Nadal riusciva a fare ace per la prima volta sul 2-2 del secondo set. Il serbo, che pure non può vantare un servizio eccezionale, nello stesso punto del match era già a 5 ace. Nadal arrivava per la prima volta a 40 sul servizio di Nole ma a parte una palla break nel terzo set, non riuscirà mai a impensierire l’avversario. Djokovic, dal canto suo, appena ha percepito che Nadal stava provando a metterla sul campo dell’agonismo, ha urlato in faccia all’avversario quando è stato portato ai vantaggi e ha poi chiuso 6-2 il secondo set. Chiaro il messaggio?
Nel terzo parziale arrivava la prima volée di Rafa, nel complicato primo game vinto dallo spagnolo. Arrivava anche la prima palla break, fallita, della partita. Il suo gioco era sempre più timido e quindi Nadal tornava a rifugiarsi nella sua comfort zone, arretrando in risposta ben dietro la scritta Melbourne, consegnando di fatto l’inerzia di ogni punto al serbo ma più che altro facendo capire anche agli spettatori da casa che non era praticamente in partita. Sembra anche inutile sottolineare qualche inefficacia tattica dello spagnolo, troppo insistente sulla diagonale dritto mancino-rovescio bimane di Djokovic, semplicemente perché Novak era perfetto. Djokovic tornava immediatamente ad alzare il livello del suo gioco per concludere un’ordinaria giornata d’ufficio, timbrando il cartellino anche contro Nadal, che non aveva mai perso prima una finale slam per 3 set a 0.
I due, fra i più noiosi e politicamente corretti in sede di dichiarazioni, replicavano le solite frasi tutte complimenti e “i keep fighting hard” dopo aver ricevuto i trofei. Roba da cambiare canale dopo il matchpoint. Djokovic si produceva addirittura nella quintessenza della banalità, utilizzando la parola “resilienza”, un termine che gli ha certamente insegnato la sua biografa.
Alla fine questo Australian Open fornisce indicazioni utili per il proseguo della stagione. Se è molto facile confermare che Novak Djokovic sarà l’uomo da battere, perché al netto della pausa Parigi-Bercy-ATP Finals ha appena vinto il terzo slam di fila da Wimbledon 2018, altrettanto lo è per Rafael Nadal, da molti indicato come la versione più forte mai vista sul cemento quando invece è il solito giocatore degli ultimi due anni, capace di vincere sulla terra in virtù di ritmi più lenti ma che soffre quando si gioca sul veloce. Ma anche qui, al netto degli infortuni che gli hanno impedito di completare molti tornei sul cemento, quanti possono batterlo? Così si spiega la vittoria a Toronto, o anche quella degli US Open 2017, l’edizione con Pablo Carreño-Busta contro Kevin Anderson in semifinale. Per Federer, sembra veramente che ci siamo. Sarà ancora competitivo chiaramente, specialmente perché adesso, per mesi, si giocherà sul veloce e al meglio dei tre set; sul rosso, superficie sulla quale non ha vinto molto neanche quando era più giovane, probabile che le sue partite siano una sorta di date di un farewell tour, a Parigi come a Roma.
E i giovani? Dovranno crescere, e cioè fare esperienza. Perché non era lecito chiedere molto di più a Lucas Pouille e Stefanos Tsitsipas. Affrontare Nadal, Federer o Djokovic nelle semifinali di uno Slam non è semplice per gente anche più navigata di loro. E quindi il fatto che non ci sia stata partita si deve anche a questo ma non solo. Contro questi campioni ci si gioca contro meglio nei primi turni, quando c’è meno tensione e gli spalti non sono quelli delle grandi occasioni. Dopo i quarti di finale scatta una sorta di click nella testa di questi plurivincitori slam, come se sentissero l’odore del sangue, e cioè il trovarsi ad un solo passo dal giocare per il titolo. In semifinale sono capaci di innalzare il loro livello di gioco, schiantando chi si presenta impreparato a gestire la complessità di una semifinale Slam, specie dal punto di vista delle emozioni. Così, i due si sono addirittura riposati per il match finale, quello che doveva durare sei ore e invece è stata una delle finali Slam più brutte e squilibrate degli ultimi anni.
Rimangono però i progressi di Tsitsipas, forse il giovane che sta crescendo meglio anche in virtù del suo carattere e della fiducia in sé stesso, una cosa che lo aiuterà nel 2019, anno ancora più decisivo per lui visto come ha iniziato: le ATP finals e la conseguente top 10 sono l’obiettivo dichiarato. Ma, inevitabilmente, cresceranno i Tiafoe, i Khachanov, Thiem prima o poi vincerà un Roland Garros e Zverev uno Slam sul veloce. Intanto, però, ci sarà da fare i conti ancora con questi tennisti eccezionali che si sono ritrovati per uno scherzo del destino a giocare contemporaneamente e a vincere per oltre una decade, stroncando tutte le velleità di ricambio generazionale. Solo l’età potrà farli perdere in maniera regolare. Questa è l’unica cosa certa, ad oggi.