Abbiamo problemi con la gente.
By Daniele Vallotto Posted in spotting on 14 Gennaio 2019 5 min read
Quanti milligrammi di paracetamolo deve assumere un corpo di un maschio sano, sulla trentina, affinché il dolore si addormenti per almeno tre ore, tanto basta per potersi inchinare al termine della partita senza dover stringere i denti? Andy Murray non lo sa.
Non basta una vita per saperlo, del resto, perché a volte i segreti del corpo sono più imperscrutabili di quelli della nostra anima. Questo Murray lo sa benissimo, suo malgrado, lo ha imparato fin da piccolo, quando non aveva ancora quelle spalle robuste, quelle gambe che sembrano essere state forgiate dal dio della guerra, quando le sue giunture erano ancora affidabili perché avevano un carico più leggero da sopportare. Si è svitato poco a poco, Murray, e più gli ingranaggi si allentavano, più cresceva la consapevolezza che a nulla sarebbero servite le pause dal meccanico, perché quella macchina non era fatta per durare.
Quando è entrato nella Melbourne Arena, Murray non sapeva quando ne sarebbe uscito. Peggio ancora, non sapeva come ne sarebbe uscito. Il pubblico, per una volta, era tutto dalla sua parte, come se fosse Roger Federer. Nella sua infinita spietatezza, dieci anni fa, proprio Federer disse che la differenza tra lui e Murray era la condizione fisica. Non sapeva, come non lo sapeva Murray, che dieci anni dopo l’universo avrebbe smesso di espandersi e che il tempo avrebbe cominciato a girare alla rovescia.
Sono passati tre giorni da quando Murray ha detto al mondo intero che sapeva di essere arrivato alla fine, ma non sapeva esattamente quando sarebbe arrivato il momento. Nessuno o quasi ha pensato al suo avversario al primo turno, Roberto Bautista-Agut. Forse tutti hanno dato per scontato che lui si sarebbe comportato come sempre, come un professionista impeccabile, come l’impiegato che compila perfettamente i moduli e che da bambino non usciva mai dagli spazi quando doveva colorare. Bautista-Agut, come sempre, è sceso in campo e ha fatto il suo lavoro, senza dare peso ai sentimenti o alla pietà.
Il pubblico non ha apprezzato la sua professionale mancanza di tatto, ha mormorato e disapprovato, senza capire che non c’era un migliore omaggio che si potesse fare ad Andy Murray: farlo correre su ogni palla, farlo soffrire e sbuffare e imprecare. Fargli dimenticare, almeno per un po’, il dolore.
La prima volta che si sono incontrati, quasi cinque anni fa, Murray vinse più punti in risposta di quanti ne vinse Bautista-Agut al servizio. Questa volta ci sono voluti due set e mezzo per vincere un game in risposta, e quello sarebbe rimasto l’unico. Nessuna palla break al quarto set, nessuna palla break al quinto. Tuttavia, Murray è rimasto in campo per quattro ore che ad alcuni sono sembrate un’agonia senza significato, ad altri la dimostrazione che non c’è bisogno di avere due anche funzionanti se si è capaci di non ascoltare il proprio corpo.
Andy Murray non sapeva quanto avrebbe potuto giocare oggi, non sapeva se il suo corpo avrebbe detto basta prima della sua volontà, non sapeva come sarebbe potuto sopravvivere alle emozioni di quello che potrebbe essere il suo ultimo match della carriera. Eppure è sceso in campo, ha giocato con coraggio, rincorrendo ogni palla e sì, emettendo quei rantoli di sforzo e dolore che negli ultimi anni sono diventati sempre più frequenti. Ha ciondolato, si è maledetto, ha recuperato palle impossibili, ha fatto il tergicristallo e ha giocato punti con un’intelligenza rara: ha fatto Murray e non era scontato che sarebbe successo.
Persi i primi due set, 6-4 6-4, non c’era praticamente nessuno che si aspettava di rimanere alla Melbourne Arena per un altro paio d’ore. Nemmeno Bautista-Agut, forse, uno che è abituato a non sottovalutare gli altri perché è abituato a sottovalutare sé stesso. Nemmeno Andy Murray, quasi certamente, nemmeno chi lo conosce meglio di chiunque altro, sua madre, e nemmeno chi ha condiviso tutto con lui fin da quando è nato, suo fratello. Eppure Murray, pur non sapendo dove il suo corpo l’avrebbe portato, ha giocato per quattro ore e quattordici minuti. Ha aggiunto altri cinque set, o se preferite altri 52 game e due tie-break, o meglio ancora, trecentotré punti al suo contachilometri, ormai più esausto di lui.
Ha vinto il punto più bello, chiudendo con una volée facile dopo aver disegnato una lob dalla parabola perfetta. Ha vinto il terzo e il quarto set al tie-break, perché è quello che fanno i campioni, rimanere in partita anche se il tuo avversario è più forte, insinuargli il dubbio che dopotutto sei più debole del tuo grande avversario. Ma nel quinto set la realtà, ancora una volta, gli ha presentato il conto. Ha accettato serenamente il risultato, come altre 190 volte nel corso di più di quindici anni di carriera. Non ha versato l’ultima lacrima, aspettando di tornare a casa per lasciare scorrere le emozioni, senza vergognarsi di mostrare che anche gli uomini si abbandonano alle proprie debolezze.
Non sappiamo se il contachilometri ne aggiungerà altri, di punti. Andy Murray è ignaro del suo futuro ed è questo ad averlo spinto a mollare. Non ha però rinunciato a concedersi la voluttà di un’ultima fiammella di speranza, perché sa di aver sofferto abbastanza ma non è sicuro che quell’“abbastanza” sia davvero abbastanza. Finita la partita, ha risposto con la consueta intelligenza, ha ascoltato le parole dei suoi compagni di viaggio e alla fine ha lasciato uno spiraglio, senza sapere davvero se potrà spalancare di nuovo quella porta. Qualcuno scrisse che il dolore è una condizione necessaria alla conservazione del corpo, mentre la sofferenza è una condizione necessaria alla conservazione dell’anima. Nemmeno Andy Murray sa quanto dolore ha provato il suo corpo e quanta sofferenza è disponibile a sopportare la sua anima. Per questo, non sa ancora dove è tracciata la fine del suo percorso.