Abbiamo problemi con la gente.
Prima di tutto, i fatti: nella finale degli US Open, tra Serena Williams e Naomi Osaka, l’arbitro di sedia ha assegnato tre penalità a Serena, facendole quindi perdere un game intero in uno dei momenti più delicati della partita (era 3-4 nel secondo set e aveva già perso il primo), dapprima per coaching (suggerimento da parte del suo allenatore, Patrick Mouratoglu), poi per racket abuse, infine per verbal abuse. Sulla seconda penalità, poche discussioni. Quello che Serena contesta è il primo warning: Mouratoglu ha candidamente ammesso di aver commesso l’infrazione, Serena però ha strenuamente contestato la decisione dell’arbitro, e quando è arrivato il secondo warning (con conseguente perdita di un punto nel game successivo), è successo il patatrac: Serena ha accusato Ramos di essere un bugiardo e un ladro, di averle rubato un punto e che il primo warning andava ritirato perché lei non ha mai imbrogliato in vita sua. A quel punto Ramos le ha comminato la terza penalità, per verbal abuse. Va notato che, ai termini di regolamento, non ha alcuna rilevanza che Serena abbia visto o meno quello che cercava di dirle Mouratoglu: l’infrazione c’è ugualmente.
“Formalmente, Ramos ha fatto bene”. Questo si è detto e letto praticamente dappertutto. E allora, di cosa discutiamo? Il coaching è proibito, “lo fanno praticamente tutti”, ma allora se l’arbitro lo sanziona a norma di regolamento qual è il problema? Serena si è sentita insultata dal warning di Ramos – inciso: ai solerti sostenitori del warning del warning suggeriamo di soffermarsi sul significato della parola: avvertimento; ti avverto che stai sgarrando, alla prossima sarai punito/a. La storia del “tutti colpevoli, nessun colpevole” è patetica: Mouratoglu ha fatto coaching, Ramos se n’è accorto e ha sanzionato la giocatrice.
La lista delle fallacie argomentative che Serena ha tirato fuori ieri sera è forse più lunga della lista di Slam vinti: «non ho mai imbrogliato», «ho una figlia a casa», «non avrebbe dato la stessa penalità ad un uomo»: è evidente che Serena si è trovata impelagata in una situazione dalla quale non è riuscita a uscire. Il coaching visto dall’arbitro è sanzionato – dovrebbe esserlo con i warning, madre, padre o single che sia il giocatore. Sul verbal abuse il regolamento è chiaro e non lascia spazio ai fraintendimenti. “Ladro” è un’offesa, Ramos è un arbitro d’esperienza, un volto noto, non può lasciar correre – sbaglierebbe chiunque a decidere in base al carisma di chi ha di fronte. Il game penalty in una finale Slam è un atto dovuto: anche la giocatrice di tennis più forte di sempre, colei che è un simbolo nella conquista dei diritti delle donne, non può offendere l’arbitro.
Carlos Ramos ha effettivamente una lunga storia di contestazioni alle sue decisioni. Qualche settimana fa è toccato a Djokovic: durante il match contro Nishikori, aveva invocato il famoso “doppio standard” perché aveva ricevuto un warning per time violation mentre al suo avversario non era stato riservato lo stesso trattamento per aver fatto rimbalzare la racchetta a terra. Nadal, l’anno scorso, aveva ricevuto lo stesso warning durante il match contro Bautista-Agut e nella conferenza stampa post match si era lamentato del fatto che Ramos gli metteva troppa pressione. Ma questi sono casi poco rilevanti, visto che sia Djokovic che Nadal hanno spesso contestato gli arbitri riguardo ai time violation che venivano loro comminati, e non è un segreto che siano due dei tennisti più contrari all’introduzione dello shot clock.
Più esemplificativo, relativamente alla faccenda di ieri sera, è il caso di Nick Kyrgios che due anni fa al Roland Garros ricevette un warning per verbal abuse (la violazione che ieri è costata a Serena un game intero) dopo che aveva alzato la voce, troppo, secondo Ramos, per chiedere l’asciugamano al ball boy. Non che le discussioni regolamentari ci appassionino troppo, ma va ricordato cosa dice il rulebook:
For the purposes of this Rule, verbal abuse is defined as a statement about an
official, opponent, sponsor, spectator or other person that implies dishonesty or is derogatory, insulting or otherwise abusive.
Nel caso di Nick c’è forse spazio per ritenere Ramos un po’ troppo suscettibile, il che però fa cadere anche l’accusa che “se fossi stata un maschio non l’avresti fatto”. La discrezionalità dell’arbitro, insomma, può incidere profondamente sulla scelta di comminare o meno una penalità, ma è indubbio che le frasi rivolte da Serena a Ramos («Mi devi delle scuse, dillo», non prima di averlo chiamato “ladro” per averle “rubato” un punto) rientrino nello specifico espresso dalla regola.
Che cosa deve fare quindi un arbitro? Ci sono due vie, sostanzialmente, e ogni arbitro ovviamente decide di gestire la situazione secondo la propria sensibilità. C’è quello che potremmo definire il “metodo Lahyani”, cioè l’arbitro che scende dalla sua sedia, parla con il giocatore e cerca di fargli capire in tutti i modi che se continuerà a comportarsi in una certa maniera (disinteressata, nel caso specifico a cui ci riferiamo, un atteggiamento che comporta uno warning per condotta antisportiva), lui sarà costretto a dargli una penalità.
Lahyani è stato ampiamente criticato per quanto ha fatto durante il match di secondo turno tra Kyrgios e Herbert – e da quel momento ha arbitrato solo i doppi sui campi periferici – ma l’atteggiamento morbido di un arbitro nell’interpretazione di una regola non è necessariamente sbagliato: se l’arbitro è riuscito a far comportare Kyrgios secondo quanto il regolamento prevede senza per forza ricorrere a una punizione, allora probabilmente quello era il modo più corretto di interpretare in quel momento quella regola. Ma questo atteggiamento fa parte dell’individualità di un arbitro: per lo stesso motivo per cui non si può buttare la croce addosso a Lahyani – che ha cercato di far ragionare con le buone un ragazzo di 23 anni poco incline a capire le cattive – non si può nemmeno strepitare contro la severità di Ramos, che evidentemente ha ritenuto più che sufficiente un warning ad una tennista 37enne che ha giocato qualche centinaio di partite negli Slam. Invocare il doppio standard, anche in questo caso, non ha senso: si può pretendere che ogni arbitro sia coerente con sé stesso, non che lo sia con le interpretazioni dei suoi colleghi.
How the sexism row between #SerenaWilliams and the umpire unfolded at the US Open 2018 finalhttps://t.co/CfuTRJ4HDK pic.twitter.com/gm5NkuFviq
— The Telegraph (@Telegraph) September 9, 2018
Il caso è chiuso dunque? Lode a Ramos e cacca a Serena e andiamo avanti? Non proprio. Quello che si è scatenato, con poche eccezioni, tra la stampa specializzata, i siti internet, le pagine facebook e gli innumerevoli tweet, ha poco a che fare con la condanna del fatto specifico e in questo caso, sì, si può e si deve parlare di “doppio standard”. Più che è altro, è servito a far emergere tutta la cattiva coscienza dei detrattori di Serena.
Non ci si è limitati all’accusa, severa quanto si vuole, di aver rovinato la festa di Naomi Osaka, ma tutto è trasceso. Si sono ricordate le occasioni in cui Serena, soprattutto a New York, si è lasciata andare a scenate simili – contro Kim Clijsters nella semifinale del 2009 andò più o meno così, col penalty point che le fece perdere il game decisivo – si è contestato l’atteggiamento presuntuoso che sempre accompagna le dichiarazioni di Serena e da lì lo scivolamento verso il comportamento belluino, anticamera delle critiche all’aspetto fisico, al modo di vestire, e infine all’uso strumentale che farebbe di temi come il razzismo e, nello specifico, il sessismo. Perché Serena, per questi signori, può essere la tennista più forte di sempre ma non la più grande.
Serena è una cicciona isterica che farebbe male al tennis, notoriamente sport di gentiluomini che per signorile cortesia permettono alle donne non solo di giocare ma addirittura di vincere dei premi identici in alcuni tornei, come appunto negli Slam. Sono arrivate le lezioni di “femminismo” da parte di chi evidentemente ignora come “isterica” sia un aggettivo dalla profonda connotazione sessista, e adesso, vedrete, arriverà la richiesta di punizioni esemplari. È inutile ricordare quanto una delle leggende di questo sport sia il signor John McEnroe che ha avuto una carriera caratterizzata da scenate di questo tipo. Le sue sbroccate in campo, spesso arricchite da vari insulti, sono oggi ricordate con vago romanticismo dagli stessi che oggi bastonano Serena: perché un uomo che va contro le regole può diventare un modello, una donna no, lei deve stare al suo posto.
E a proposito di doppio standard: ricordate quanto disse il capitano della Juventus al termine di Real Madrid – Juventus di qualche mese? Ecco, gli stessi che allora si voltarono dall’altra parte e giustificarono le parole francamente vomitevoli di Buffon, oggi ululano all’antisportività di Serena e attaccano con sollievo il suo “pseudofemminismo”. Del resto, i maschi possono perdere la testa, le femmine no. Se poi sono nere e ciccione, se da 15 anni sono uno schiaffo continuo alla supremazia bianca, se non accettano di essere relegate al ruolo che i maschi da sempre assegnano alle femmine e cioè quello della brava ragazza che non si deve però sognare di mettere in discussione l’autorità ma sfrontatamente se ne strafottono delle aspettative maschili posso perdonarti fino a quando vinci. C’era gente che ha masticato amarissimo in questi anni, quando Serena vinceva e vinceva. E che ieri ha avuto la sua rivincita. Forse questa è l’unica cosa che dovremmo veramente rimproverare a Serena, avere offerto quest’assist. Ma Serena resterà, loro passano.