Abbiamo problemi con la gente.
Avevano costruito su di lei, Caroline Wozniacki, il personaggio dell’usurpatrice, la peggiore tra le numero uno, quella che senza un titolo del Grande Slam era riuscita a scalare la vetta della classifica WTA; quella che aveva approfittato dell’assenza di Serena Williams e di una concorrenza che costituiva veramente poca roba per primeggiare. E ben due volte Wozniacki ha provato a scrollarsi di dosso questa maschera, ma senza successo: a soli diciannove anni, l’anno prima di quello in cui diventò per la prima volta numero 1 del mondo, perse la finale degli US Open contro Kim Clijsters; cinque anni più tardi perse ancora una volta, questa volta contro Serena Williams, sempre a New York. In tutti e due i casi nessuno si aspettava veramente di più da quello che Caroline aveva potuto offrire: le tenniste contro cui giocava erano troppo più forti di lei.
Ma questo non bastava a toglierle l’appellativo di “robottina”, che seppur offriva uno specchio immaginifico quanto puntuale del suo tennis, a tratti troppo bidimensionale, era una connotazione che non nascondeva una punta di negatività. Per anni chi più chi meno ha conosciuto la figura di Caroline Wozniacki come quella che era stata, non si sa per quale ragione, la numero del tennis mondiale senza vincere uno dei quattro titoli più importanti del tennis. E non solo per gli aficionados di questo sport, perché Wozniacki ha avuto più occasioni anche per farsi conoscere al di fuori dei campi da tennis. La danese, polacca d’origine, figlia di papà Piotr il calciatore e mamma Anna la pallavolista, è nota anche per essere una sfegatata fan del Liverpool, per essere stata lasciata all’altare dall’ex fidanzato e campione di golf Rory McIlroy, per avere una stretta amicizia con Serena Williams e per i numerosi servizi fotografici per riviste quali Sports Illustrated e ESPN.
Un’eco mediatico degno di altre figure di rilievo del tennis femminile con “risonanza extra-tennistica” quali Maria Sharapova ed Ana Ivanovic, che però avevano a differenza sua non solo conquistato la vetta del ranking ma anche vinto un titolo dello Slam. Eppure Sharapova (che ha vinto 5 Slam) ha detenuto la prima posizione mondiale per 21 settimane, mentre Wozniacki per ben 67! E se si va a contare bene, si scopre che nemmeno sommando le settimane da numero 1 di campionesse del calibro di Venus, Clijsters, Capriati, Sanchez-Vicario, Muguruza, e Goolagong si riesce a superare questo numero. E che dire di Dinara Safina, l’illustre precedente che pochi però ricorderanno in questa veste, quella che giocò tre finali Slam senza vincerne nemmeno una e nonostante ciò fu numero 1 del mondo per ben 26 settimane? Per non parlare di Jelena Jankovic, che fu numero uno e giocò, perdendo, solo una finale Slam. Almeno Wozniacki aveva tentato di vincere un titolo una seconda volta.
Eppure, forse per il gioco troppo remissivo, per il dritto costruito e troppo meccanico, per la strategia da contrattaccante che mette in moto le gambe e si adatta al gioco dell’avversaria piuttosto che puntare a dettare lo scambio, è sempre sembrato ingiusto vederla con lo scettro in mano, avendo sempre preferito relegarla al ruolo di comprimaria, di solito la prima tra le seconde. Così, infatti, si è presentata a questi Australian Open, da numero due del mondo, da seconda testa di serie del tabellone, da giocatrice da inserire nel lotto delle favorite, ma non come prima scelta.
E così è arrivata in finale contro la numero 1 Simona Halep, che assieme a lei condivideva il destino di primatista del ranking senza Slam, anche lei avendo fallito due opportunità, anche lei in un unico luogo, a Parigi anziché New York. In questa finale qualcuna sarebbe dovuta uscire per forza vincitrice. E alla fine è stata proprio lei, Caroline Wozniacki, la sbeffeggiata, la derisa, quella delegittimata assieme ai suoi 27 titoli, una carriera che poche possono vantare. Ha vinto il suo primo titolo Slam nove anni più tardi dal primo tentativo, 10 anni dall’inizio di quella sciagurata maledizione, quando conquistò per la prima volta la posizione numero 1 del mondo. Ed è giusto che con questo titolo si riprenda, come accadrà lunedì, proprio quella vetta che tanti grattacapi le ha dato durante tutti questi anni. Ha vinto il suo primo titolo Slam e l’ha vinto anche ribaltando i pronostici di una finale che la vedeva sfavorita in partenza, seppur negli scontri diretti fosse in vantaggio contro Halep per 4-2.
“If something is wrong, we will have a beer, like Darren says, in the evening, then tomorrow is a new day.” –@Simona_Halep pic.twitter.com/Ey8eK7Qbl9
— WTA Insider (@WTA_insider) January 27, 2018
È stata vera gloria? Difficile dirlo. La finale è stata quella che è stata. Un gran bel primo set di qualità, dove Wozniacki spostava la palla meravigliosamente con i cambi in lungolinea (il 49% dei colpi che ha giocato nel primo set) sfruttando la forza che Halep imprimeva ai colpi e dettando lo scambio. Un secondo set che Halep è riuscita a vincere per una clamorosa spinta di volontà, perché si vedeva fin dai primi game che aveva finito le energie fisiche per reggere i ritmi alti. E un terzo set che era segnato dall’inizio a meno che Wozniacki non avesse deciso di gettarlo al vento per non si sa quale crisi psicologica. E stava quasi per accadere, se non fosse che Caroline si è giocata l’ultima carta a disposizione proprio quando Halep sembrava aver ribaltato una partita senza chance: sotto per 4-3 con la romena al servizio, Caroline ha chiamato un medical time out che era più time-out che medical. Un leggero massaggio al ginocchio, con annessa fascia elastica, e quella perdita di tempo riusciva a spezzare il momentum di Halep.
Ad un passo dalla sconfitta, Wozniacki si è calmata e da quel momento Halep non ha più vinto un game. Certo, non è così semplice la vicenda: se Wozniacki non si fosse inventata il rovescio in recupero più bello del torneo sul 5-4 30-30 non avrebbe poi alzato la Daphe Akhurst Cup al cielo. Ma non basta quel coniglio dal cilindro per scordare che, a partire dal secondo set, la danese si è accontentata di aspettare una giocatrice che non aveva più energie fisiche e si limitava ad un blando palleggio sostenuto. Ed allo stesso modo basterà questo Australian Open a dimenticare che questa è la sua prima vittoria contro una top 5 in uno Slam, che nel suo tabellone per arrivare alla finale ha affrontato soltanto una top30 (la n°21 WTA, Rybarikova), che se si guardano le statistiche si scopre che è riuscita a mettere a segno meno di 10 vincenti a partita (65 per 7 incontri, una media di 9,2 ad incontro). Ma la vittoria che le mancava negli Slam ora c’è. Le critiche nei suoi confronti non si placheranno ma nessuno potrà più rimproverarle quello zero nella casella Slam.
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Ma anche Simona Halep ha dimostrato di aver diritto di contare, di essere una delle migliori di questo sport, benché senza titoli Slam (per il momento). Halep ha sofferto una distorsione alla caviglia nel suo match di primo turno ma è andata avanti comunque. Ha salvato tre matchpoint consecutivi contro Lauren Davis al terzo turno, vincendo poi per 15-13 al terzo set (48 game totali, eguagliato il record femminile del totale di game in un match agli Australian Open che risale al quarto di finale tra Rubin e Sanchez-Vicario del 1996). Ha vinto la più bella partita del torneo, salvando altri due matchpoint contro Angelique Kerber in una semifinale finita 9-7 al terzo set. È rimasta in campo, prima di questa finale, undici ore di gioco totali; per fare un paragone, Roger Federer, che gioca al meglio dei tre set su cinque, ha trascorso sul campo due ore in meno. E nonostante ciò, in ovvia crisi di energie fin dall’inizio del secondo set di questa finale, è stata ad un passo dal vincerla, e probabilmente l’avrebbe fatto se non fosse stato per quel medical time out. Caroline Wozniacki più volte si è “scusata” di aver vinto nella cerimonia di premiazione. Forse era perché aveva qualcosa da farsi perdonare.