Abbiamo problemi con la gente.
Se io fossi Federer, penserei a questi ultimi anni e cercherei di capirci qualcosa. Alla sconfitta contro Söderling, a quei match point sbagliati contro Djokovic perché “ho pensato troppo alla sfida di domani contro Rafa”, all’ace della semifinale di Parigi e alla smorzata della finale, alla partita contro Delbonis e al quarto set della prima finale a Wimbledon con Djokovic, alla semifinale con Murray e sì, certo a quella con Raonic. Oppure a quella partita persa da due set avanti, quando l’avversario si mise a imitargli il rovescio, facendo punto, per giunta. O, ancora, alle palle break di New York, tante da essere diventato un canone di riferimento: “Nemmeno Federer a New York contro Djokovic”.
Se io fossi Federer, avrei già spiegato a Charlotte e Myla che il mondo è un posto terribile e che giocare a tennis è una fortuna, ma solo perché ti permette di non pensarci troppo. Che non si deve credere a quelli che dicono che guadagniamo troppo perché siamo un pezzo piccolo del problema, e che i soldi che arrivano a noi sono solo il 10% di quelli che arrivano a chi organizza il torneo. Spiegherei loro che le donne e gli uomini hanno il diritto di guadagnare la stessa somma, e che chi parla di spettatori e diritti televisivi non ha ovviamente capito di che cosa sta parlando.
Se io fossi Federer, aspetterei che Leo e Lenny crescessero un altro po’ per portarli lontano dal tennis, che mi ha permesso molte cose ma che non so che cosa mi ha sottratto. Andrei nelle città per fare delle passeggiate e per chiedere loro qualcosa su quel monumento, su quello che è successo all’angolo di quella strada, perché sono così legati a quella persona. Smetterei di viaggiare, solo per coltivare la sensazione di averne voglia di nuovo. Allora andei nelle stesse città, per vedere se è vero che i luoghi che ci rendono felici possono anche renderci terribilmente tristi, a distanza di anni.
Se io fossi Federer, organizzerei assemblee e inviterei le persone a parlare di immigrati, di operai che guadagnano cinque dollari l’ora, e cercherei di capire come sia possibile tutto questo. Direi a Margaret Court quello che penso si meriti, e a quelli che mi criticherebbero perché lo sport non deve mettere il naso sulla politica consiglierei di leggersi la storia di Paolo Sollier, se quella del pugile gli fa venire le vertigini. A Tennys Sandgren direi di andarci più cauto, invece, e che a Gesù di Nazareth non sarebbe mai venuto in mente di iscriversi a Twitter.
Se io fossi Federer, giocherei solo sulla terra rossa e perderei contro Ferrer prima del suo ritiro. A Wimbledon non andrei mai più e quelle due settimane starei al mare, ma non alle Maldive, ché magari ci incontri Cilic, ma un mare così, tipo quello della Liguria. Se io fossi Federer abolirei le religioni, brucerei il paradiso e inonderei l’inferno, direi questo è giusto e questo è sbagliato, spalancherei prigioni, bloccherei treni, regalerei giradischi alle mamme per farle ballare.
Se io fossi Federer, andrei al cinema, a teatro, all’opera, a vedere il balletto, leggerei fumetti mangiando le patatine, regalerei le mie scarpe e qualche vestito, mi allenerei poco, giocherei meno. Comprerei solo libri usati, poi li regalerei, mettendoli in una cassetta di legno all’angolo di una strada, preoccupandomi che ci sia qualcosa che li copra. Andrei anche nei musei, perché sarebbero gratuiti e aperti a tutti: prima l’arte contemporanea, poi quella rinascimentale e infine quella medioevale. Infine? No, anche quella egizia e quella mesopotamica. E le scienze naturali? Anche quelle, certamente.
Se io fossi Federer, costruirei un parco in ogni città, ponti, autostrade di dieci corsie. Alle poste non ci sarebbero più quelle file chilometriche e in banca ci si andrebbe solo per cambiare i soldi. Proverei a togliere l’argento della luna. Comprerei orizzonti e gite senza traffico al ritorno, le risposte che aspettiamo tutti per domani, e farei in modo che tutti adempissero alle promesse che si sono scambiate. Gli oroscopi sarebbero aboliti, perché non ci sarebbe nulla da sperare, visto che non ci sarebbe nulla da temere. Scriverei delle poesie, a volte brevi, a volte lunghe, e poi le leggerei ad alta voce sotto un albero, in una giornata soleggiata, ma con una leggera brezza. Andando a casa, rileggendola, mi renderei conto che non era poi così bella come sembrava: ma a chi importerebbe?
Se io fossi Federer, tornerei a Istanbul a giocare, e giocherei i Challenger e i Futures, e tutti i tornei di doppio. Ad Halle non ci metterei più piede, nemmeno per scherzo, mentre mi concederei una tappa a Basilea, per salutare gli amici. Ma stavolta niente pizza, almeno non quella con quel nome che fa tanto ridere. La smetterei coi selfie, perché sono tutti identici, e con le conferenze stampa, per lo stesso motivo.
Se io fossi Federer, avrei smesso nel 2009, perché perdere una partita così, in quel modo, dopo quel torneo, mi avrebbe fatto passare la voglia. O forse avrei smesso anche prima, a Parigi, perché vinto quello, cos’altro avrei dovuto chiedere a me stesso?