Abbiamo problemi con la gente.
Partiamo da Nadal: 3 game a Estrella Burgos, 13 a Leonardo Mayer (con un tie-break) e 5 a Dzumhur. Il numero 1 del mondo – che se passerà un ostacolo non certo insormontabile come Schwartzman agli ottavi confermerà la prima posizione mondiale – ha vinto tre partite senza dare per nemmeno un secondo la sensazione di poter andare in difficoltà. Un discorso ben diverso dagli ultimi US Open, peraltro vinti, quando proprio il terzo turno con Leonardo Mayer rappresentò forse il momento di maggiore difficoltà dello spagnolo. In Australia Nadal si è presentato da numero 1 come nel 2009 (anno in cui vinse il torneo), nel 2011 (quando venne eliminato ai quarti di finale da Ferrer) e nel 2014 (quando perse in finale contro Wawrinka), e le sue quotazioni si stanno alzando di parecchio. All’inizio del torneo c’era molta incertezza sulle sue condizioni fisiche, i primi tre turni ci hanno consegnato un Nadal che sembra molto convinto delle proprie possibilità. E con il tabellone che ha, come potrebbe non averne?
Federer vola sul campo. Più di qualsiasi innovazione tecnico-tattica, è la leggerezza dei movimenti dell’attuale numero due del mondo ad impressionare. Paganini, colui che ha la ricetta della pozione magica che consente a un quasi trentasettenne di essere considerato il secondo se non il primo fra i favoriti alla vittoria del torneo, dice che Federer può giocare fino al 2020, ammesso che non si infortuni. Come smentirlo? Il Roger ritrovato, quello capace di vincere a Melbourne dopo sei mesi di assenza, è parente strettissimo del Roger del 2006, quello che poteva anticipare qualsiasi traiettoria dei suoi avversari proprio perché rapidissimo a tagliare le diagonali di corsa, rifiutando di cedere campo oltre la linea di fondo. E così, quasi non ci sorprendiamo più nel vedere togliere il tempo di esecuzione ai suoi avversari, chiunque questi siano. E dunque tre set a zero a Bedene, idem al giovane e volenteroso Struff, con un tiebreak, e altrettanto a Gasquet, senza neanche l’appendice del jeu decisif. Federer sta alla grande.
Muguruza (testa di serie numero 3), Venus Williams (5), Ostapenko (7), Konta (9), Vandeweghe (10), Mladenovic (11), Görges (12), Stephens (13), Sevastova (14), Pavlyuchenkova (15), Vesnina (16). Delle prime 16 sono già uscite prima degli ottavi in undici e delle altre 16 sono arrivate agli ottavi Keys (17), Rybarikova (19), Strycova (20), Kerber (21) e Kontaveit (32). Come di consueto, le gerarchie nel tabellone femminile sono difficili da decifrare e anche quest’anno ci sarà una debuttante tra le semifinaliste. Stavolta potrebbe toccare a Elina Svitolina, testa di serie numero 4, che a parte qualche difficoltà nel primo set (perso) con Siniakova al secondo turno, ha battuto piuttosto agevolmente le sue avversarie e partirà da netta favorita sia agli ottavi contro Allertova che ai quarti contro la vincente di Mertens-Martic. Per i bookmaker è proprio Svitolina la favorita, ma l’inesperienza potrebbe costarle un brutto scherzo. È anche vero che in tabellone è rimasta una sola campionessa Slam, Angelique Kerber, e che nemmeno un anno fa Ostapenko vinceva il suo primo torneo nel circuito maggiore al Roland Garros, da numero 47 del mondo. Proprio la tedesca sembra essere tornata quella degli anni pari, e forse la favorita del torneo. Quello che è certo è che tra le sofferenze della Halep (che ha vinto il suo match di terzo turno al ventottestimo game del terzo set), la solidità della Wozniacki che sembra sempre in pericolo (ha rimontato da 5-1 40-15 nel suo match di secondo turno), il cammino a fari spenti di Karolina Pliskova, la seconda settimana promette di essere appassionante.
Il nuovo movimento del servizio non è passato inosservato e non poteva certo essere altrimenti per chi è stato fermo 6 mesi per un problema al gomito. Le partite contro Young, Monfils e Ramos-Viñolas non hanno risposto fino in fondo, come era prevedibile, ma ci hanno almeno detto che Djokovic è in condizioni fisiche molto buone, a differenza di Wawrinka.
Did you know? After his elbow injury, Novak #Djokovic has changed his serve routine #AusOpen (Video @AustralianOpen) pic.twitter.com/oMsZctUUCX
— We Are Tennis (@WeAreTennis) January 16, 2018
La partita con Monfils, giocata in un caldissimo pomeriggio australiano, è l’emblema dell’atletismo di Djokovic, che si è trovato in difficoltà contro un avversario che sa tirare molto forte ma che mal si adatta alle condizioni estreme. Tutto il contrario di Djokovic. Nel 2009 il campione uscente dovette abbandonare il campo durante i quarti di finale contro Roddick per via delle alte temperature, l’anno successivo perse al quinto contro Tsonga, ancora nei quarti di finale, per una gastroenterite. Da allora in poi in Australia ha vinto 5 volte su 7, facendosi fermare da avversari molto ispirati, non più dal caldo. Eppure Djokovic si è lamentato molto delle condizioni in cui lui e Monfils sono stati costretti a giocare, dicendo di essere ben cosciente che il tennis è prima di tutto un business, ma che non si può mettere in pericolo la salute degli atleti. Tutto bene fino ad ora, insomma, ma quando si rientra da uno stop i problemi possono sorgere da un momento all’altro e i numerosi doppi falli commessi da Djokovic indicano che quando il livello degli avversari salirà (e quindi già al prossimo turno contro Chung) il serbo potrebbe dover affrontare una situazione più complicata del solito. Ancora più difficile per chi si è disabituato a vincere dopo le scorpacciate degli ultimi anni.
Battendo Zverev per la seconda volta in altrettanti match giocati, Hyeon Chung si è qualificato per la prima volta al quarto turno di un torneo dello Slam, eguagliando proprio il miglior risultato di Zverev negli Slam. Nessuno dei due è mai andato oltre, ma se per Chung è abbastanza normale vista la sua classifica (59 ATP), altrettanto non si può dire per Sascha Zverev, attuale numero 4 ATP e già vincitore di due Masters 1000 in carriera. Il fallimento fin qui dello Zverev forte negli Slam è palese, ma guai a ricordarglielo in conferenza stampa, pena essere travolti dalla sua già proverbiale simpatia e disponibilità al dialogo post sconfitta. Chung, dopo aver perso il terzo set per 6-2 andando sotto di due set a uno, è rimasto imperturbabile. Ha vinto il quarto set per 6-3, cercando di non dare mai angolo al suo avversario, indirizzando i suoi colpi sul rovescio dell’avversario in quella zona di campo a metà fra la linea del servizio e quella laterale, l’half space del calcio, in pratica. Sasha non riusciva a fargli male da quella zona di campo e Chung prendeva il sopravvento appena poteva, denotando una sagacia tattica che ci pare già superiore a quella di Zverev, arrivato in cima di pura forza, fin qui. Il quinto set era una formalità, un 6-0 pesante al numero 4 del mondo, la vittoria più importante in carriera per Chung, forse il più NextGen di tutti.
Occhio a Naomi Osaka: la giapponese, classe 1997 come Ostapenko, ha raggiunto gli ottavi di uno Slam per la prima volta in carriera e da non testa di serie ne ha già eliminate due (Vesnina, numero 16, al secondo turno e Barty, numero 18, al terzo). La prossima è Simona Halep, che due anni fa dovette rimontare un set a Osaka nel terzo turno del Roland Garros: non sarà facilissimo, per Simona. Il tennis potente e spregiudicato di Osaka è ormai noto tra gli appassionati da un po’ e questo Slam potrebbe essere quello buono per far conoscere questa ragazza a tutti quanti, anche a quelli che si collegano dalle semifinali in poi. Numero 72 del mondo, con un best ranking al numero 40, può già vantare due vittorie contro le top 10 dopo averne perse 9 di fila e dopo aver sfiorato il colpaccio contro la numero 1 del mondo, Karolina Pliskova, a Toronto. Un sorteggio un po’ più fortunato e un pizzico di consapevolezza in più la rendono la mina vagante del torneo. Lei comunque vola basso, e quando le dicono che raramente si vede qualcuno tirare così forte lei abbassa gli occhi e con un mezzo sussurro risponde: «Beh, non colpisco così forte, ad essere onesta. Rimango sempre un po’ sorpresa quando me lo dicono, perché non è certamente mia intenzione».
Il motivo per il quale Wawrinka ha giocato gli Australian Open è solo uno: Yonex. Che Stan non fosse in forma era lecito aspettarselo, d’altronde non ha giocato nessun torneo prima di questi Australian Open. Pensavamo di ritrovarlo in campo un po’ arrugginito, e invece era praticamente impresentabile. Superato il primo turno in quattro set contro Berankis, 141 ATP, Stan è uscito mestamente dal torneo che ha vinto nel 2014 vincendo solo 7 game contro uno che è famoso solo perché si chiama Tennys (Sandgren) di nome. E vabbé. Stan aveva già saltato gli US Open, saltare lo slam di casa per il suo brand, Yonex, sarebbe stato forse troppo. Gli avranno richiesto la presenza, alla serata di gala con tutti i tennisti del brand giapponese (che pure ha sotto contratto il futuro, almeno maschile: Kyrgios e Shapovalov) e nelle altre photo opportunity. Ora per Wawrinka tanto riposo, molte cure al ginocchio malandato e poi allenamento in vista del ritorno, direttamente sulla terra battuta diremmo.
Due italiani insieme al quarto turno non li avevamo dal 1976, quando al Roland Garros Barazzutti e Panatta affrontarono Vilas e tal Franulovic. Come finì l’avventura di Panatta se lo ricordano tutti, Barazzutti raccattò appena sette game con il buon Guillermo. Metteremmo la firma perché finisca allo stesso modo ma non è il caso di scommetterci. Piuttosto queste coincidenze servono per sottolineare la vacuità di molti discorsi intorno alle capacità di una federazione di creare, se non fuoriclasse, buoni giocatori. Avanti in uno Slam ci si può arrivare in milioni di modi e non è il caso di intristirsi se non ci si riesce da secoli come non ha tanto senso esultare se due bravi paesani trovano dei buchi in tabellone. Bravi Seppi e Fognini, quindi, ma per l’altoatesino è solo la sesta volta (ed è 0-5 nei precedenti) e per il ligure addirittura la quarta, con tanti saluti per chi continua a considerarlo un mezzo fenomeno. Speriamo che uno dei due riesca ad arrivare ai quarti, più Seppi che Fognini, e occupiamoci piuttosto di Sonego, che è stato bravo a vincere un duro torneo di qualificazione e superare quel mezzo matto di Haase. Il piemontese, ancora più che Berrettini, bravo anche lui, è forse il più accreditato a prendere il posto dei due veterani, e non è detto che non riesca a fare anche meglio. Il servizio e il dritto sono più che competitivi e il giocatore ha la testa giusta. Se si irrobustisce un altro po’ non è detto che non ci si ritrovi a fare altri discorsi.
Vestito di bianco dal suo nuovo brand, italiano peraltro, abbiamo seguito Dolgopolov con immutata speranza di vederlo trionfare come un usurpatore al trono qualsiasi. Lo vedevamo già al quarto turno opposto a Nadal, e non poteva di certo essere l’austriaco Haider-Maurer a fermarlo al primo turno o Ebden nel seguente. Rassicurati dai due match vinti senza soffrire, sognavamo di far correre l’argentino Diego Sebastián Schwartzman oltre ogni limite consentito. E cosi era, solo che dopo un set Dolgo deve aver pensato che il weekend incombeva, e che annoiarsi a pensare punto dopo punto contro uno come Schwartzman non era il caso, tanto poi, eventualmente, il tabellone gli avrebbe messo di fronte Nadal, la taglia XL dei tennisti à la Diego, insomma. E quindi, vinto il primo set al tiebreak, giocati i soliti colpi innaturali del suo tennis eretico che sempre esce sconfitto contro quello ortodosso dei più, Dolgo si è semplicemente stufato. Perché stufarsi fa tanto Dolgopolov. O Paire.
Pretendere qualcosa sul campo da tennis a livello di risultato da Benoit Paire significa ritrovarsi a sostenere il tennista sbagliato. Il punteggio dei primi due set giocati contro Garcia-Lopez serve a confondere l’eretico del Paire pensiero: 6-0 per Garcia-Lopez, 7-6 per Paire. Il francese ha poi perso, ma prima di abbandonare l’Australia ci ha consegnato esattamente quello che noi ci aspettavamo da lui. Chi vuol spendere la sua vita a guardare una pallina correre da una parte all’altra di un campo da tennis faccia pure, Paire non se la prenderà.
In singolare:
Benoit Paire's incredible shot! pic.twitter.com/KlriONn4yA
— Rena (@_irenka23_) January 16, 2018
E in doppio:
https://twitter.com/_irenka23_/status/953509551466340359
Le hanno provate tutte: hanno mantenuto il nome del campo come avevano promesso, resistendo alle formidabili forze delle lobby che hanno tentato in tutti i modi di sovvertire il sistema con le loro rivendicazioni da caccia alle streghe; hanno redarguito i giocatori dal prendere posizione, che si sono divisi tra dichiarazioni coraggiose come “Non sta a me decidere” e “Non ho sufficienti informazioni per parlarne”; hanno giocato l’ultima carta, tenendo il sorteggio dei tabelloni proprio sulla Margaret Court Arena, alla presenza di Maria Sharapova, che deve prima pensare ai problemi suoi, e di Roger Federer, che al massimo può avercela con lei per quel dannato record Slam, ma non si sognerebbe mai di mancarle di rispetto. Ma alla fine, ha vinto chi ha la schiena dritta e crede nelle proprie idee: Margaret Court Smith, la vincitrice di 24 Slam in singolare, 19 in doppio e 19 in doppio misto (per la parità di genere, si capisce), il pastore del Victory Life Centre che ha preso in carico la missione di redimerci dai nostri peccati, ha detto fieramente: no. Un no pesante e coraggioso come quello della Concertación, tanto per intenderci. In questo caso, il dittatore rovesciato dal no di Margaret Court è il pensiero del politically correct, il maccartismo dei moralisti, il fascismo degli antifascisti ben spiegato da Flaiano, i poliziotti di Villa Giulia eccetera eccetera. Insomma, la battaglia è stata vinta perché il nome è rimasto, a memoria di chi vorrà ancora mettere in discussione l’indubbia statura morale di questa salvatrice, la guerra è prossima alla conclusione perché agli australiani, dopo il grande rifiuto di Margaret, che ha preferito andare per granchi invece che mescolarsi al volgo un po’ frocio che aveva osato insolentirla, non resterà che abrogare quella legge retrogada e pericolosa, frutto delle pressioni di quelle lobby che non piacciono a nessuno e tantomeno a noi. Il no vincerà di nuovo, come nel 1988: e a Pinochet, e a tutti i fascismi (ma anche comunismi, suvvia) della perversione sessuale, non resterà che arrendersi. Perché il bene trionfa sempre, alla fine.