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Il tempo ritrovato

Pare sia inutile girarci attorno: una partita di tennis dura troppo. Del resto, per uno sport nato nell’800 come passatempo per le interminabili giornate degli inutili ricchi – sia concessa la ridondanza – di qualche contea inglese, era strano che nel passaggio verso la società veloce rimanesse incontaminato. Gli orribili parvenu che si sono impossessati del gioco non potevano che tagliuzzarlo a poco a poco. Non è certo un caso che il tiebreak appare subito dopo l’apertura al professionismo e ad opera – come sbagliare? – del solito modernissimo yankee, tale James Henry Van Alen II.

L’inventore dell’Hall of Fame di Newport – una cosa che tutti dicono essere importante ma chissà se lo è davvero – si era cominciato a stancare già di Pancho Segura, un tipo degli anni ’50 che serviva come Karlovic o Isner. Siccome era già tempo di noia, si inventò un punteggio che ricalcava quello del ping pong, a 21 con cambio battuta, senza prima palla, ogni 5 punti. Nel 1970, come dicono gli storici, lo US Open pensò che fosse il caso di finirla e sul 6 pari, ma lo sapete tutti, stabilì che chi sarebbe arrivato prima a 7 avrebbe vinto il set. Lentamente si adeguarono un po’ tutti e fino alla fine degli anni ’90 non successe più niente.

Forse l’arrivo di Nadal e Djokovic, forse le interminabili sfide sul rosso parigino, rimisero sul piatto la questione del tempo perso. Lo spettatore era cambiato, aveva un sacco di cose da fare; di alcuni si dice che addirittura lavorino e insomma non possono stare tutto il giorno a vedere Rafa che si aggiusta le mutande o Nole che fa rimbalzare la palla dalle 18 alle 28 volte prima di servire, a seconda dell’importanza del punto.  Col rischio che magari sbagli la prima o – orrore! – la palla prenda il nastro e quindi lo costringa a ricominciare tutto da capo. E quindi serviva adeguarsi, del resto chi lo dice che per vincere un set debbano servire sei game e non cinque? O magari quattro? E un giorno, chissà, potrebbero essere tre.

È da qui che arriva la inverosimile pagliacciata, se passate il termine tecnico, che si svolgerà a Milano da oggi a domenica. Siccome lo sport ha avuto una mutazione, come tutto del resto, inutile non tenerne conto. Se negli spalti una volta c’era gente che magari tornata a casa avrebbe affidato ad un bigliettino l’ultima frase celebre per poi spararsi, adesso non c’era più tempo: sono tutti troppo infelici per suicidarsi. Così 4 game per set sono sufficienti e via quell’inutile orpello del nastro, se prendi il let pazienza, si gioca lo stesso. E siccome siamo diventati multitasking, meglio poter fare altro mentre vediamo la partita, quindi spazio al movimento durante gli scambi.

Ma se rivoluzione dev’essere, rivoluzione sia. Complice quest’anno di tennis un po’ meno interessante del solito, a molti di voi sarà capitato di annoiarsi durante una finale, magari dando un occhio soltanto ai momenti davvero importanti – del resto è noto che nel tennis i punti non hanno tutti lo stesso valore – e quindi quando i due erano sulla palla break o sulla palla game. Sul 40-30 o 30-40 insomma. Il fatto è che quella che doveva essere un’occhiata fugace spesso finiva col trasformarsi in una lunghissima pausa, perché invece di fare il punto successivo chi era in vantaggio finiva col farsi raggiungere per iniziare magari una lunga litania di “advantage” e “deuce”. Meglio risolverla con il killer point: chi batte scelga dove e chiusa lì.

Certo, per chi si fosse avvicinato al gioco affascinato dai tempi morti, da come questi finivano col dare il senso della caducità delle cose, perché vent’anni passeranno anche in un lampo ma certi pomeriggi davvero non passano mai, dalla sensazione della lunga attesa ad aspettare qualcosa di cui ti saresti accorto solo quando era già passato, tutto questo se non è l’orrore di Conrad finisce con l’avvicinarcisi molto. Il tennis non è uno sport particolarmente appassionante dal punto di vista agonistico, lo è perché, appunto, intravedi i protagonisti mentre cercano di isolarsi dal contesto, mentre provano ad abbandonare i cattivi pensieri: “se avessi scelto quello, se adesso facessi quest’altro, ma tanto lui poi lo capirà, ma come fa a capirlo se neanche io ho già scelto”; perché si intravede il dialogo con se stessi che raggiunge inarrivabili vette esistenzialiste “forse non sono abbastanza a forte per vincere questo game, questo set, questa partita, questo torneo, questa vita”, per chiudersi col match point e ricominciare, intatto, la partita dopo, il giorno dopo, il mese dopo.

Kronos mangiava i figli che lui stesso aveva creato, simbolo sin troppo scoperto del tempo che crea e distrugge perché puoi illuderti di recuperarlo, aumentarlo, dilatarlo, ma alla fine il tuo tempo finirà. E alle spalle dei giocatori il giudice supremo conterà inesorabilmente i secondi che avranno a disposizione i giocatori per smettere di pensare, per ricominciare a giocare. Per vivere.


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