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Il beato Juan

Se siete credenti è miracolo, se siete creduloni è magia. Gli US Open di Juan Martín del Potro sembrano tutto meno che un torneo di tennis con un giocatore che è arrivato alle semifinali più che per i suoi meriti, che vanno considerati acquisiti, soprattutto per il concorso attivo dei suoi avversari.

L’argentino è arrivato agli ottavi di finale del torneo battendo, in ordine, Laaksonen al primo turno, Menendez-Maceiras (!) al secondo e Bautista-Agut al terzo. Tre match, zero set persi e un solo tiebreak giocato. Al quarto turno affronta Dominic Thiem, uno di quelli che domineranno il tennis nel futuro breve, come si dice ornai da qualche anno, ma che fino a oggi tranne qualche buon risultato sulla terra battuta, come le semifinali agli ultimi due Roland Garros, non ha fatto molto altro. del Potro non arriva al match nelle migliori condizioni; è debilitato da un’influenza, pare, e per i primi due set non è in grado di giocare. Thiem vince il primo set per 6-1 e il secondo per 6-2. L’argentino rimane in campo forse solo perché non vuole ritirarsi, perché sente l’incitamento della folla che vorrebbe vedere una partita e invece assiste a un monologo austriaco. In Italia è circa mezzanotte, i televisori si spengono tanto il terzo set sarà una formalità. Invece Thiem si rilassa, convinto com’è di avere la partita in pugno, e cede il terzo set rapidamente, per 6-1. Nel quarto i due si rimettono a giocare. Un del Potro improvvisamente tornato ad avere energie riesce a recuperare uno svantaggio di un break nel quarto set e poi annulla addirittura due match point a Thiem con altrettanti ace.

Fra le tante qualità di Thiem non figura l’esperienza – se la sta facendo – né la capacità di concretizzare quando è al dunque. Al quinto set, sospinto dai cori della folla dell’Artur Ashe stadium, Juan Martín vince la partita e alza le braccia al cielo. Thiem ha buttato la partita, e del Potro ha fatto il miracolo. Qualcuno, sempre di quelli che vanno a messa la domenica, titola usando Lazzaro; altri, quelli più patriottici, usano “eroe”. In tutto ciò, da nessuna parte, si punta il dito verso Thiem.

Non c’è tempo, perché “l’uomo dei sogni”, “l’uomo che realizza i miracoli”, “il gigante buono” ha realizzato l’ennesima impresa, ci ha messo il cuore, ha scritto un’altra favola per bambini. Ma i bambini non si accontentano mai, “ancora un’altra mamma, raccontamene un’altra del gigante buono”. Ma certo, tanto c’è Federer da affrontare nei quarti di finale, nella riedizione della finale dell’unico torneo Slam vinto dall’argentino, gli US Open del 2009.

Lo svizzero – 36 anni e la schiena così così – sùbito dopo il match vinto al quarto turno contro Feliciano Lòpez, dichiara di ricordare perfettamente quella partita: «mi piacerebbe rigiocarla». Non gli è andata giù, magari pensa che questa può essere una buona occasione per vendicarsi.

Però del Potro gioca un eccellente inizio, mette in campo il 78% delle prime palle e per Federer c’è poco da fare, l’argentino vince il primo set per 7-5. Lo svizzero non sembra avere un piano di gioco molto chiaro; riesce comunque a passare in vantaggio nel secondo parziale, gioca in maniera più fluida e chiude per 6-3. Nel terzo set gli errori gratuiti da parte di Federer sono tantissimi, specie con il dritto. Roger si intestardisce a giocare sul dritto di del Potro e non ne ricava nulla. Va sotto di un break, lo recupera. I due rimandano la contesa al tiebreak e Roger è sempre in vantaggio: 2-0, 4-2, 6-4; del Potro annulla i due setpoint con un’ottima risposta al servizio di dritto (!) e con una prima vincente. Federer sciupa un terzo set point con un rovescio a lato e vede svanire il quarto con un servizio-dritto di del Potro. Al primo set point in suo favore, l’argentino chiude e si porta in vantaggio per due set a uno. Ripartono i cori dalle tribune, il pubblico è tutto con lui, o almeno è questa l’impressione visto il baccano che fanno i suoi tifosi. New York spera in un altro quinto set, dopo una settimana e mezza di match mediocri.

Gli US Open sono lo Slam che manca da più tempo a Roger Federer: l’ultimo titolo risale al 2008.

Solo che Federer oggi è in versione normale. Commette errori, continua a sfidare del Potro sulla diagonale di dritto invece di insistere sul rovescio per aprirsi il campo. Sembra convincersi che non uscirà vincitore da questa partita e quindi il suo gioco ne risente. Ogni tanto urla, prova a incitarsi, ma non sembra mai convinto di poter incidere attivamente sulla partita. E alla fine l’argentino chiude per 6-4 capitalizzando un break di vantaggio conquistato in uno sciagurato game di Federer nel quale lo svizzero sbaglia addirittura uno smash. Vittoria, braccia al cielo e discorso in spagnolo al pubblico galvanizzato.

Mentre la giostra della titolazione cristiano-esoterica riparte con più benzina nel serbatoio, in pochi prestano attenzione alle parole di Federer in conferenza stampa.

«Ho perso perché non sono stato abbastanza bravo mentalmente, fisicamente e nel mio gioco. Se mancano queste tre componenti, allora si fa dura. Ci ho provato fino alla fine; ho messo in rete colpi che di solito non sbaglio, ho spedito una volée sui teloni di fondo campo. Sono stati colpi schifosi. Onestamente, è stato terribile. Ho avuto molte opportunità ma ne ho fallite diverse, questo è un peccato».

Ma è la “situazione del Potro” ad essere sfuggita di mano. In uno sport già intriso di retorica il percorso di Juan Martín è presto diventato simile a quello di Bolivar, se non proprio del Che. E così abbiamo letto di “tutta l’America Latina unita in un abbraccio collettivo” in attesa di arrivare alla sollevazione popolare al seguito di un dritto inside out o di uno smash in un panamericanismo fatto di ace e prime vincenti.

I motivi dell’affetto verso questo giocatore sono più che comprensibili: del Potro ha l’aria di presentarsi in maniera molto autentica, in un misto di fragilità e consapevolezza che la nostra pigrizia ci induce a identificare tout court con un intero continente. Poi ha subìto infortuni gravi, è tornato a giocare, si è infortunato di nuovo ed è tornato ancora. Questo, rendendo sempre tutti partecipi sia della sua riabilitazione e della sua vita privata. Lo ha fatto con quelle foto bruttine ma originali che condivideva con i social, così come i suoi messaggi scritti senza ufficio stampa, le foto del suo cagnolone, la bandana sui capelli corti come negli anni ‘80 e l’aspetto non particolarmente curato quando gioca. Lo percepiamo più reale di altri, e per questo gli vogliamo più bene che ad altri, perché ci sembra più vicino a noi, più sincero.

Da qui al miracolo ce ne corre. In questo strano anno tennistico, con i primi 5 dell’anno scorso tutti ai box, è bastato trovare un varco favorevole per regalarsi una semifinale slam. E mezzo del Potro, un del Potro senza rovescio, vale pur sempre un Anderson o un Carreno-Busta. Una vittoria contro il solito, incostante Thiem non lo fa diventare Lazzaro. E aver battuto il peggior Federer della stagione non ne fa un eroe. Il suo, fin qui, rimane un ottimo torneo perché torna in semifinale slam dopo Wimbledon 2013. Ma se all’annata più strana del tennis degli ultimi dieci anni aggiungete il torneo più balordo capirete facilmente che Juan Martin del Potro è rimasto il buon giocatore di tennis che è sempre stato. Niente di più, niente di meno.

Juan Martin del Potro Roger Federer


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