Abbiamo problemi con la gente.
Quando attraverso il Ponte della Musica faccio sempre una pausa nel suo punto più alto. Lo attraverso camminando sul lato destro, quello pavimentato in legno dove al tramonto si ritrovano gruppi di persone a fare ginnastica o yoga, e quando sono nel mezzo, in alto sul Tevere, mi fermo. Poggio a terra il pesante zaino che a breve sarà oggetto di minuzioso controllo e mi godo cinque minuti di pace. Questo è l’ultimo momento di calma della giornata, perché appena sarò dall’altra parte del Tevere ci sarà il traffico, i vigili che fischiano e quel chiosco con la tv con audio in filodiffusione che trasmette l’anticipo di Serie A delle 12:30. Mi appoggio alla balaustra e lascio che lo sguardo si perda sull’acqua del Tevere, sporca e ferma, e che disegna linee precise solo quando passa qualche canoista. Se si ha la pazienza di aspettare, qualcuno passa sempre. Il Foro Italico non si vede, coperto dagli alti alberi del lungotevere. Sotto di me ragazzi in età scolastica perfezionano i loro trick con lo skateboard mentre qualcuno gioca a tennis sui polverosi campi del dopolavoro di ministeri e aziende partecipate.
Con il ponte alle spalle davanti a noi c’è solo marmo bianco. Gli uffici del Coni sono tinteggiati di rosa ma l’obelisco con l’effige Dux è sempre là a dare un tocco surrealista al luogo. Il campo centrale si prende gran parte della nostra visuale, c’è la finale in corso: il viale è finalmente sgombro. L’ultimo giorno del Foro è quello più importante, almeno così dovrebbe essere, ma mentre gli alti dirigenti federali fanno di tutto per allungare la durata del torneo, e quindi i profitti, l’impressione principale è che può bastare così. E già da qualche giorno.
L’assalto dei bambini dei primi giorni è oramai lontano. I negozi che a caro prezzo espongono i loro prodotti per massimizzare le vendite ad appassionati eccitati dalla vista dei campioni sono stanchi già prima del torneo, e solo per aver allestito lo stand. Dal sabato, giornate di semifinali, già si lavora per rimettere nelle scatole il materiale, ché tanto la domenica chi vuoi che se la compri la racchetta. Nei bar la birra scarseggia. La Ichnusa, sarda pure questa ma sarà sicuramente un caso, è calda. Tentenno. Lo straniero vicino a me la tocca e la rifiuta. Un altro che vive in Germania dice che da lui neanche te la proporrebbero una birra che non sia gelata. Ma qui siamo Roma, io chiedo alla ragazza di cercare meglio e finalmente ne arriva una decente.
Dovrei salire per vedere Djokovic contro Zverev, osannato fin da quando gli hanno chiesto di salvare la finale, e cioè di battere Isner, o forse perché realmente dominerà il tennis fra qualche anno. Speriamo nella resistenza. Ma intanto serve che ci sia partita fra i due, che il vincitore del match sia incerto per un paio d’ore. Almeno nell’ultimo atto il pubblico romano merita una partita decente. Ma vedere una partita dalla tribuna stampa, posizionata talmente in alto che anche il suono dei colpi arriva ovattato, è anche peggio che seguirla in TV. Oltretutto, i posti sono finiti, pazienza.
Passeggiando nel viale tutto è molto silenzioso. C’è il vociare del pubblico, diffuso, interrotto solo dallo scrosciare di convinti applausi. Chissà chi avrà fatto il punto. Meno male che si sente l’arbitro comunicare il punteggio. Da ragazzini, quando si andava allo stadio senza biglietto per entrare nell’ultimo quarto d’ora, ascoltare un gol da fuori era meraviglioso. Se non era il derby, dal boato capivi benissimo chi aveva segnato. Io aspettavo le 16:30 e che i cancelli si aprissero; se eri fortunato riuscivi a guardare pure il gol. A centinaia si scattava rapidamente sui gradoni della Sud verso la luce, cercando di farsi spazio sulle scalinate dove già c’era gente. Che si incazzava. Un boato, qualcuno deve aver fatto il break. Zverev, scoprirò poi.
Il tennis è differente dal calcio, nonostante da anni si provi a sostenere che sia uno sport popolare. Sarà, ma al Foro ci vuole il biglietto per varcare il tornello e accedere all’area anche nel giorno in cui si giocano le finali, anche se poi per entrare sul centrale c’è un ulteriore e scrupoloso controllo. Magari, con l’accesso libero si riempirebbe il Pietrangeli mentre Dodig e Melo giocano contro Herbert e Mahut per il titolo. Questa sì che sarebbe promozione, tanto poi verrebbero solo i romani. E allora ecco le tribune con gli spazi bianchi, come all’inizio del torneo. Mentre il centrale è pieno, chi lavora ai negozi comincia a fare frenetiche camminate per caricare auto e van di materiale, di casse di acqua, e pazienza se si perde qualche cliente. Un altro boato, parte la musica: è finito il primo set e sono le cinque precise. Do un’occhiata veloce al telefono: Zverev ha vinto il primo set. Mi fermo a pensare: quale giornale domani titolerà “Zverev zar di Roma”?
Mi fermo a chiacchierare con un amico, uno di quelli che ha lo stand e che non vede l’ora di tornare a cenare a casa con la famiglia. Mancano poche ore. Mi offre il biglietto per il centrale, dico che sto bene così, con tanto spazio intorno a camminare. Anche gli addetti al controllo biglietti del centrale possono sedersi e giocare con il telefono, finalmente. Un altro boato, non tanto forte. Controllo il telefono: Zverev ha un break di vantaggio anche nel secondo set quando è passata da poco l’ora di gioco. Il pubblico non sembra molto felice di questo risultato.
Salgo in sala stampa e la trovo mezza vuota. Non ci sono più giornalisti spagnoli da giovedì e austriaci da venerdì, di quelli che sono rimasti chi non è nella piccionaia riservata alla stampa segue il match in TV. Guardo l’ultimo game, guardo Zverev finalmente vincere il primo torneo importante della vita, ricevere gli immancabili complimenti di Djokovic e guardare i copiosi battimani d’ordinanza. Non mi sono perso niente, mi pare di aver capito. I fotografi intanto rientrano di corsa giusto dopo aver immortalato Zverev ricevere il trofeo da Rod Laver. C’è da scaricare subito le memory card e fare i We Transfer alle redazioni. Anche le conferenze stampa del campione e dello sconfitto vanno in scena senza l’entusiasmo dei primi giorni. Zverev è meno spocchioso del solito, questa volta ha vinto e tollera bene anche le domande stupide.
Per noi è tempo dei saluti, di regalare quei “ci vediamo presto” che per me significano il 2018, rispondendo che “no, non vengo a Parigi, non per andare in vacanza a vedere il tennis almeno”. A me basta e avanza Roma, pazienza per lo spettacolo.