Abbiamo problemi con la gente.
Il 20 ottobre del 2006 Tomáš Berdych ha da poco compiuto 21 anni ed è numero 11 delle classifiche mondiali. Nato a Valašské Meziříčí, in Moravia,Tomáš prosegue i fasti della famosa “scuola cecoslovacca” che gli storici del tennis – categoria noiosa se mai ce ne sia stata una – fanno risalire a Drobny e gli intellettuali, peggiori dei primi, a tal Ladislav Hect uno che, nientemeno sarebbe arrivato in finale a Roma negli anni ’30 e capace di avere un match point contro Donald Budge, quello che vinse il primo grande slam tra un bicchiere di whisky e una brutta novella al cambio di campo.
Obbedendo a criteri di catalogazione, Berdych sarebbe l’ultimo di una serie che tra gli uomini annovera gente come Kodes, che vinse Wimbledon quando non andò nessuno, Lendl, Korda, Stepanek. E Mecir, che preferiva pescare al tennis, evidentemente un rivoluzionario, forse un anarchico, che però, smettendola con gli inutili sarcasmi, giocava “senza perdere la tenerezza”, si parva licet.
E tra le donne da quello spicchio d’Europa sono arrivate meraviglie e non solo Martina – se avete bisogno del cognome meritate che non vi venga detto – ma anche e soprattutto Hana Mandlikova, Jana Novotna, Petra Kvitova, tutta gente che guardandola ti fa venire il dubbio di non meritartela tutta quella grazia.
Il ragazzo di Valašské Meziříčí sembrava però appartenere ad un altro filone, rispetto a quello emotivo: equivoco, se equivoco è, agevolato dalla struttura fisica di Tomáš, un ragazzone alto quasi due metri e dallo sguardo gelido. E il gioco, in quell’ottobre del 2006 sembrava meraviglioso. Berdych aveva già vinto contro Federer alle Olimpiadi di Atene e conquistato il suo Master a Parigi, e ormai si apprestava a raggiungere la top 10.
Nadal vinceva ancora solo sul rosso, anche se aveva appena fatto la finale a Wimbledon, e sia Djokovic che Murray erano dietro. Berdych era indicato come tra i più probabili prossimi vincitori slam, e quando all’Arena di Madrid, dopo aver battuto Andy Roddick, Tomáš seppellì di dritti Rafael Nadal aggiudicandosi il primo set nessuno si era troppo sorpreso.
Però il maiorchino non era troppo contento, aveva perso le ultime due sfide e replicare il tutto davanti al pubblico amico non era il primo tra i suoi desideri. Rafa prese la partita maledettamente sul serio, per quanto superficie e location – un veloce cemento indoor – gli saranno ostili per tutta la carriera, aveva in fondo tramortito due specialisti come Fish e Haas e non poteva credere che questo diafano moravo potesse batterlo in questo modo, da inscalfibile.
Rafa provò, passate il gergo, a “sporcare la partita”, facendo giocare a Berdych sempre un punto in più, in attesa dell’errore o del momento in cui liberare la micidiale chela di dritto. E ogni volta che gli riusciva chiamava l’incitamento del pubblico a forza di Vamos! e avambraccio portato all’altezza della testa. Ai madrileni sarebbe bastato meno ed ogni primo servizio del ceco che non entrava era il preludio di un piccolo boato, cosa che avrebbe fatto perdere la pazienza forse persino a Mecir. E Berdych non era Mecir. Quando Tomáš riuscì a piazzare il servizio finale per aggiudicarsi il tiebreak del secondo set e la partita, il moravo non si trattenne: indice davanti alle labbra e sguardo cattivo a circondare Rafa, l’Arena, Madrid, il mondo. Il giorno dopo, tornato in campo contro Fernando González, Berdych trovò gli stessi del giorno prima che cominciarono a fischiare già durante il riscaldamento. Tomáš conquistò solo 4 game e c’era la sensazione che qualcosa fosse cambiato.
La settimana successiva Berdych approda finalmente in top 10 e misteriosamente la sua ascesa si ferma. Il ceco riesce sporadicamente a toccare la nona posizione ma sprofonda anche fino alla numero 27 e quello che appare incredibile è che da quel momento contro i più forti non ci vincerà più. Nadal non gli concede più un solo misero set per sei anni affrontandolo ovunque, persino sull’erba di Wimbledon, dove i due giocano una finale imbarazzante per quanto sembra ampio il divario. Eppure Berdych aveva superato Federer e Djokovic prima di arrendersi forse al ricordo di Madrid. Berdych torna finalmente in top10, e da allora non la lascia più. Riesce persino a toccare la top5 e ad arrivare un paio di settimane al numero 4 ma curiosamente questo si accompagna a vittorie sempre più sporadiche, occasionali.
Vince un torneo l’anno, massimo due, e sempre tornei minori: mai un Masters 1000, mai uno Slam. A Madrid, col torneo spostato di data, di luogo, di superficie, di mondo, arriva in finale contro Federer, a Montecarlo contro Djokovic. In entrambi i casi vince un set, in entrambi i casi non basta. Gira il mondo con l’aria sempre più glaciale e curiosamente sempre più confusa, assume allenatori, pensa a Lendl che manco si scomoda a rispondergli, comincia gli anni dando l’impressione che sia sempre quello decisivo, da “ora o mai più”. Un infortunio durante la scorsa estate lo porta fuori dalle Finals, dopo sei partecipazioni di fila. Poi Melbourne, 20 gennaio 2017: «I wish I was in the crowd watching this match, not to be on the court». Il ragazzo di Valašské Meziříčí forse si ferma qui.