Abbiamo problemi con la gente.
By Daniele Vallotto Posted in monografie on 6 Gennaio 2017 5 min read
Che il 2016 sarebbe stato un anno diverso dal solito per Serena Williams, lo si era capito agli Australian Open, il primo torneo dell’anno giocato dall’allora numero 1 del mondo. Era il torneo del rientro dopo quattro mesi di assenza, il primo torneo dopo quella clamorosa sconfitta contro Roberta Vinci agli US Open 2015. Già dopo quella sconfitta, si era ipotizzato che il Grande Slam sfumato a tre passi dalla realizzazione avrebbe avuto delle ripercussioni nel futuro della statunitense.
Il rientro agli Australian Open sembrava però dire il contrario. Eccezion fatta per un primo turno complicato con Camila Giorgi – e qualche esitazione era pure comprensibile – Serena arrivò in finale con i punteggi soliti: 6-1 6-2, 6-1 6-1, 6-2 6-1, 6-4 6-1, 6-0 6-4. Per quelli pochi bravi con la matematica, fanno 17 game persi in cinque partite, le ultime due giocate contro Sharapova e Radwanska. La finale contro Angelique Kerber, che debuttava in una finale Slam a quasi 28 anni, sembrava la classica formalità e tutti quanti avevano già preparato i titoli sul sospirato 22mo Slam, l’aggancio a Steffi Graf, la caccia al Grande Slam che riparte eccetera eccetera.
Come è andata lo sappiamo tutti, e dodici mesi dopo quella partita si può dire senza troppo timore di sbagliarsi che il circuito WTA ha subìto lo scossone che stava attendendo ormai da troppo tempo. Serena ci ha messo qualche altro mese per scendere dal trono, visto che il suo 2016 è stato tutt’altro che disastroso: ha raggiunto la finale a Indian Wells (dopo un percorso perfetto, simile a quello di Melbourne), ha vinto a Roma, raggiunto la finale al Roland Garros e vinto a Wimbledon, terminando quindi la rincorsa al record di Graf. L’impressione, per tutto l’anno, è stata quella di una Serena capace di tamponare la delusione di fine 2015 ma incapace di tappare tutte le falle. Nella finale di Melbourne abbiamo assistito a qualcosa di inedito: Serena, spesso buia in volto quando trovava qualcuno più forte di lei, dispensava sorrisi a tutti, compresa la sua avversaria. «Lei ha un atteggiamento da cui tutti dovrebbero imparare, è stata d’ispirazione anche per me. Se non devo essere io la vincitrice, allora sono felice che lo sia lei». Parole inusuali, anche perché l’impressione è che Kerber, indubbiamente migliorata nel tennis e nell’atteggiamento in campo, sia diventata numero 1 anche perché è maturata nel momento perfetto, proprio quando il potere di Serena cominciava a indebolirsi.
Da allora le sconfitte di Serena sono diventate via via sempre meno amare. Per due anni e mezzo non ha perso una finale, poi è arrivato il 2016 e ne ha perse tre su cinque, due delle quali in uno Slam (e fino ad allora ne aveva perse appena quattro in tutto). Serena, insomma, non vince più prima di scendere in campo, ma si deve conquistare ogni singola vittoria. È più o meno quello che successe a Federer, suo coetaneo, con più di qualche anno d’anticipo. La differenza, tra Roger e Serena, è che la statunitense non ha incontrato una Nadal che erodesse pian piano le sue certezze e aumentasse di conseguenza la consapevolezza di tutti gli altri.
Federer, dal 2008 in poi, è diventato un tennista fortissimo eppure battibile e nonostante una certa lentezza nel processo, altri tennisti si sono messi in testa di poter competere con lui. Serena no. Fino al 2015 era lei a dettare i tempi, a prendersi le sue pause, a decidere chi se la poteva giocare e chi no. Era durante le sue assenze che si poteva puntare ai titoli più importanti giocandosela alla pari con tutte le altre. Quando lei tornava a giocare, invece, c’era da sperare che fosse distratta o fuori forma, oppure, meglio ancora, tutte e due. Ma quando Serena aveva in mente di vincere, non c’è stato nessuno – tranne forse Azarenka per un breve periodo – che potesse realmente metterle i bastoni tra i piedi.
Quando Serena era molto più giovane, si diceva che il circuito era molto più competitivo e che Serena non avrebbe dominato così a lungo se le Davenport, le Capriati, le Mauresmo, le Henin e le Clijsters fossero rimaste più a lungo a competere. Quando se ne sono andate le migliori, Serena ha imperversato a suo piacimento, rendendo il tennis femminile una specie di palcoscenico con un’unica protagonista. Le sconfitte di Serena, quelle poche che arrivavano, erano partite strane, dense di rabbia e di incredulità, di episodi controversi e di storie laterali da raccontare. Non si capiva perché Serena perdesse: la rabbia per l’usurpazione superava perfino la sorpresa di chi la stava guardando. Non aveva tirannizzato solo le sue avversarie, insomma, ma anche i suoi spettatori.
Ma dopo tante vittorie, nel 2016 le cose sono cambiate e dopo un’altra sconfitta senza rimorsi con Karolina Pliskova, Serena si è dovuta fermare di nuovo in anticipo per ricaricare le pile, come aveva fatto dodici mesi prima. Quella che abbiamo ritrovato ad Auckland è una Williams vulnerabile ma non rabbiosa, volenterosa ma non più onnipotente. Una Serena che è scesa al livello di tutte le altre e che, a sorpresa, è disposta a misurarsi anche con quelle che una volta nemmeno osavano pensare di appartenere alla stessa specie.
Madison Brengle, numero 72 del mondo, una tennista poco abituata a giocare con le migliori, figuriamoci a batterle, poco prima di chiudere la partita, ha conquistato i titoli dei giornali per l’onestà con cui si è rivolta alla sua allenatrice: «Penso sia sorpresa da quanto sono scarsa». Ma Brengle si sbagliava di grosso: Serena, nonostante gli 88 errori non forzati, sapeva benissimo chi aveva davanti, e lo ha accettato. Forse, anche per questo, potremmo dover rivalutare questa campionessa, quando si ritirerà.
Correzione del 9 gennaio: una precedente versione di questo articolo riportava che Serena ha raggiunto la finale a Miami, invece il torneo era Indian Wells.