Abbiamo problemi con la gente.
By Claudio Giuliani Posted in tennis di periferia on 18 Luglio 2016 14 min read
L’odore della domenica mattina a Roma è l’odore del riposo. Le strade sono libere, l’aria è pulita, e i palazzi sembrano avere colori più vivi. Se ti alzi presto e scendi in strada, magari perché hai dimenticato di comprare il latte la sera prima, le uniche persone che incontri sono papà che vanno a comprare cornetti per la famiglia o assonnati ragazzi cui tocca portare il cane a fare pipì. Il cinguettio degli uccelli sugli alberi si sente meglio rispetto a un qualunque altro giorno, l’immondizia però trabocca dai secchioni come al solito, ma almeno si può attraversare la strada da protagonista, senza aspettare la pietà dell’automobilista di turno. Se non fosse per gli autobus che passano, Roma sembrerebbe una città post pandemia à la The Walking Dead. La Capitale è così, la domenica mattina per qualche ora sceglie di essere altro, di regalare pace e tranquillità a coloro che sono disposti ad alzarsi presto.
Fra questi ci sono i tennisti come me, che devono alzarsi presto e preparare la borsa perché alle nove c’è l’adunata al circolo. Le tre racchette sono già nel borsone, aggiungo solo la divisa della squadra, maglia bianca firmata e pantaloncini neri a corredo, l’asciugamano, e le scarpe buone, quelle leggere. Nella tasca laterale, quella dove ripongo orologio e telefono quando gioco, infilo “Guerra e Pace”, il libro sul comodino in questo periodo. È il classico dei classici, e mi tocca leggerlo, anche perché l’amico che fa parte del mondo dell’editoria, ovvero della “cerchia di incestuosa angustia dove il non conoscersi fra addetti ai lavori è fantascienza”, per usare la definizione di Tommaso Pincio scritta nel suo ultimo romanzo, minaccia di togliermi il saluto se non lo completo entro l’anno.
È così che mentre attenderò il mio turno per giocare – potrebbero volerci ore – mi rilasserò leggendo le storie della Russia dell’800, saltando le parti in francese che non sono tradotte nell’edizione Einaudi che ho comprato, e per questo prontamente cazziato dall’angustioso. Perché trascorrere il tempo che ti separa dal tennis a guardare tennis ti priva di energie mentali, ti scarica. Ecco perché è meglio fare altro, in attesa della partita.
Col borsone in spalla scendo in strada, il clang del difettoso cancello della palazzina fa girare di scatto i cani in strada. Guardo il cielo: ci sono giusto un paio di nuvole, la giornata promette di essere stupenda. I seggi hanno aperto da poco ma in giro non ci sono neanche i vecchietti nelle scuole di Montesacro adattate per l’occasione; c’è voglia di punire qualcuno più che di cambiamento, e i romani che andranno a votare scegliendo Giachetti o Raggi, non lo faranno di certo convintamente. Continuano a dormire, per ora.
La temperatura sale man mano che Roma si sveglia. Manca qualche grado ai famigerati trenta, un po’ poco per godersi il bagno in piscina, la temperatura giusta, però, per la tintarella. E quindi la piscina giusto dietro i campi da tennis ha già le sdraio a bordo vasca occupate. Si riempirà a metà mattinata, anche perché c’è da votare e quindi meglio rimanere in città, visto anche che le previsioni del tempo portano pioggia nel pomeriggio. Ci sono poche macchine alle 8 e 30 al circolo. La sbarra del cancello d’ingresso è fissa in posizione d’attesa, e si alza solo per i tennisti che sono chiamati alle competizioni a squadre, il torneo. Io devo giocare l’ultimo turno della serie d2, quello valevole per la promozione.
(Riassunto delle puntate precedenti: la squadra ha terminato il girone al primo posto, andando a vincere in trasferta a Colleferro sui tanto temuti campi in tappeto veloce. Così facendo, ha saltato un turno del tabellone regionale e si ritrova ad affrontare, in casa, una partita secca al meglio dei tre singolari e un doppio, poi eventuale doppio di spareggio. Se si vince è promozione in D1).
Il circolo è più tranquillo del solito, perché il maestro che dirige la scuola tennis ha organizzato uno stage nei campi che gestisce in provincia di Latina, vicino al mare, dove i quarta categoria assetati di tecnica si faranno fare la video analisi e per un giorno e mezzo si sentiranno dei pro. Poi, quando torneranno a Roma, sarà tutto come prima e saranno oggetto degli sfottò di chi è rimasto a giocare e già li sfotte ora che sono ad allenarsi al mare.
Io ed Edoardo, arrivato prima di me, scendiamo subito in campo per scaldarci. Vogliamo “attivarci fisicamente”, come si dice in gergo, e quindi iniziamo a palleggiare in maniera blanda sul campo vicino al chiosco bar del circolo, aperto solo d’estate. È lì che arriva Enzo, il nostro numero uno. Lui, giovane istruttore calabrese che allena i ragazzi più bravi della scuola tennis, si è svegliato praticamente dieci minuti prima e fa colazione mentre noi palleggiamo. I suoi occhi sono ancora mezzi chiusi e la sua flemma ricorda quella di un bradipo. Arriva anche Arnaldo, che è il nostro capitano, e si mette a palleggiare con me ed Edoardo.
Arnaldo è un over 50 ancora classificato fra i terza categoria, e il suo punto di forza è la solidità mentale. In campo la usa come Brad Gilbert, il tennista americano ex allenatore di Agassi che ha scritto un libro, “Winning ugly”, vincere sporco. Arnaldo ha giocato un solo match della fase a gironi, ma oggi vorrebbe proprio scendere in campo. Siamo in quattro per tre posti quindi, con Enzo nostro numero uno fisso e gli altri due posti da assegnare a due fra me, Arnaldo ed Edoardo. Arnaldo si tira fuori da galantuomo, dicendo che lui è già stato protagonista nell’Over 50, ma rosica un minuto dopo e non fa nulla per nasconderlo. Io e Edoardo scaldiamo le volée.
Arrivano gli avversari, è tempo di presentarsi, fare la formazione e iniziare. Il giudice chiama in campo Enzo ed Edoardo, io giocherò non appena uno di loro avrà finito. L’estenuante trattativa con il gestore del circolo, Claudio, ci ha concesso due campi per la D2, complice anche il fatto che il circolo, alle 9, è ancora deserto.
Enzo ha rotto le corde della sua unica racchetta e gioca con quella di Katia, un’altra maestra del circolo. Nonostante colpisca con una Prince con le corde tese sotto ai venti chili, Enzo fa il break al primo gioco: è troppo più forte del suo avversario per perdere questa partita. Vero che di fronte ha uno che non è sceso in campo convinto di potersela giocare, le sue ultime parole prima di aprire il cancello del campo sono state: “Daje che è l’ultima domenica che gioco, meno male va: me sto a separà co’ mi moje”.
Sul campo di fianco, Edoardo è in campo con un ragazzino 4.1 vestito con completino giallo fluo. L’imberbe colpisce con top spin esasperato di dritto, con impugnatura full western, e non va in difficoltà neanche quando Edoardo gli indirizza il backspin di rovescio sul dritto. Sull’altro lato, quello del rovescio, colpisce ricordando Alex Corretja (o Thiem) e cioè allontanando di molto dal corpo la racchetta per protenderla in avanti, per poi richiamare vorticosamente il tutto in un rapidissimo giro di 360gradi prima dell’impatto.
La partita sembra bella, si mette sui binari di una lunga contesa da fondo campo sul piano del ritmo, con i due che colpiscono da un paio di metri dietro la linea. I “vamos” di Edoardo arrivano dopo dei game combattuti, a dire che il punteggio è finalmente in suo favore. Se si lotta da fondo campo, Edoardo partite così non ne perde. Infatti, finisce 6-2 6-0, e la cattiveria agonistica di Edoardo vista in campo è figlia di una sconfitta rimediata qualche giorno prima in un torneo.
Enzo, intanto, chiede una racchetta: sta giocando con le corde troppo lente e non riesce a controllare la palla. Chiude il primo set e va in vantaggio nel secondo anche se si fa recuperare, con l’avversario che ci crede ma che non riesce mai ad agganciarlo. Anche se Enzo gioca con tutta l’apatia e il disinteresse possibile non riesce a perdere la partita. Quei fondamentali allenati talmente tante volte per andare fuori, e quella seconda palla di servizio che è degna di un giocatore ATP, fanno ancora la differenza a un livello di gioco che non è il suo. E pazienza se la sera prima era al mare a fare baldoria con gli amici, e se si è svegliato alle 9:10 per stare al circolo alle 9:20, lui che ci arriva a piedi tanto abita vicino. Ma noi, i suoi compagni, gli vogliamo così tanto bene che il gruppo whatsapp della squadra ha come nome “meno male che c’è Enzo”.
Tocca a me. Gioco contro il loro numero tre, un 4.1 come il loro due. È biondo, gigante, e ha gli occhi azzurri come la sua maglietta. Non ha neanche 18 anni e la sera prima della partita era a mangiare un hamburger con i suoi amici, almeno così gli ho sentito raccontare al papà mentre aspettavamo che si liberasse il nostro campo, mentre ero impegnato a sfogliare Lev Tolstoj. Il genitore ora lo guarda dalle tribune con aplomb impeccabile. Spero di essere come lui sugli spalti il giorno in cui mio figlio deciderà di giocare a tennis, magari arrivando a disputare un torneo.
Mentre palleggiamo penso che comunque saremo promossi: Edoardo ci ha portati sull’1 a 0, Enzo sta concludendo la partita vittoriosamente, e nell’eventuale doppio dovremmo vincere tranquillamente. Si tratta solo di decidere se sarò io a portare il terzo punto, quello della vittoria, o concludere mestamente questo campionato a squadre, con una sconfitta. I palleggi tradiscono una debolezza del mio avversario sul lato del rovescio, che gioca a due mani, e questo mi dà tranquillità fin dall’inizio: indirizzando da quella parte, sul rovescio, non andrò mai in difficoltà. È così infatti fin dagli inizi, anche se perdo il primo game per via di un paio di risposte sbagliate.
Nell’ultimo periodo sto cercando di giocare circa un paio di metri dietro la linea di fondo campo, per avere più tempo per caricare i colpi. Preferisco che la mia palla arrivi più pesante che più velocemente. Gioco alla Thiem insomma, ma tiro sempre il rovescio alla Stan: è così che faccio il break con una risposta di rovescio vincente in lungolinea, con il gigante biondo che mi aveva caricato una seconda in kick a sinistra. Io sto molto ben dietro la linea di fondo e carico il colpo in tranquillità, piazzo la palla a due centimetri dalla riga in lungolinea, un esercizio più di precisione che di potenza. Mi accorgo che di rovescio riesco veramente a mettere la palla dove voglio.
Quando questo succede riesco a percepire il rilascio delle endorfine. Si svolge tutto in un secondo, il tempo che trascorre da quando il mio avversario colpisce la palla al servizio fino a quando la mia risposta non tocca terra nella sua metà campo. Questo brevissimo lasso di tempo si allunga nella mente del tennista, che riesce a scomporre questo secondo in tanti istanti per diverse fasi da eseguire con puntualità e precisione, perché solo così il colpo sarà vincente. Le gambe cercano la posizione, poi arrivano i passettini per trovare gli appoggi giusti, mentre l’occhio è fisso sulla pallina e la mente calcola la distanza spazio/tempo. Busto e braccio iniziano a contorcersi per restringere al minimo l’ingombro in campo, accumulando forza. Poi c’è il click, l’attimo definitivo. Le braccia rilasciano l’energia accumulata, la racchetta colpisce la pallina, e le gambe continuano a muoversi per mantenere l’equilibrio dopo aver trasferito il peso del corpo sull’impatto. L’istante seguente è quello che ti fa capire se il colpo è stato eseguito bene, una sensazione sonora. E poi guardi la pallina filare verso dove avevi deciso di indirizzarla, come se la stessi seguendo in un video slow-mo, vicino alla riga, profonda, dove nessuno e nulla potrà raggiungerla. Anche l’avversario guarda la pallina, tornata troppo veloce nella sua metà campo. Neanche prova ad opporsi, la palla rimbalza in campo, è vincente, ed è qui che realizzo la compiutezza del gesto. È in questo momento che provo la sensazione di aver rimesso a posto l’ordine delle cose nel mio tennis. Nessun colpo di quelli che chiudo di solito, i dritti a sventaglio à la Thiem o quelli colpiti in contropiede dopo aver spostato l’avversario in laterale, riescono a farmi provare la stessa sensazione. Quando il rovescio lungolinea colpito ad una mano si rivela vincente, in campo sento di aver riportato giustizia.
Colpi del genere rimangono nella mente più di chi li subisce che di chi li esegue. Perché, subendoli, senti un campanello d’allarme: “non posso lasciare scoperto il lungolinea per cercare di coprire molto campo con il dritto, il mio avversario riesce a metterla lì e pure bene”. Lui, il gigante biondo, ci prova un paio di volte ma la sua palla finisce a rete o larga. Sono tranquillo, infilo sei giochi consecutivi e chiudo 6-1 il primo. Edoardo e Arnaldo stanno vincendo, gli do le spalle quando siedo al cambio campo sotto l’ombrellone verde, con lo sguardo che scruta il cielo terso.
Rientriamo in campo rapidamente, lui prima di me, perché sa che il destino della partita è segnato. Fa un game sul due a zero per me, quando perdo malamente il servizio, ma è solo una distrazione di passaggio. Prova a giocare qualche backspin, e a un certo punto ne indirizza uno molto insidioso sul mio dritto. La palla rimbalza all’altezza della linea della battuta, molto bassa. Quando si colpisce una palla così bassa in quella zona di campo ci sono solo due possibilità: o la si appoggia delicatamente, colpendo di piatto, oppure si colpisce con un tospin esasperato. Le vie di mezzo, i dritti dal finale interrotto o dalla forza ridotta, produrranno un solo effetto: la palla finirà fuori. Io non giro l’impugnatura e colpisco frustando a tutta forza, più di polso che di braccio, perché la palla deve girare parecchio con quella forza per atterrare in campo. Il colpo è velocissimo, la palla rimane dentro, vicino alla riga. È un vincente, e il gigante biondo guarda scorato la terra battuta che sporca le sue Nike bianche e celesti.
Gli stringo la mano poco dopo, biasciando un “bravo” neanche tanto convinto. Lui non dice nulla, raggiunge il padre in tribuna mentre io cerco di godermi il momento della promozione. Nessuno festeggia, nessuno si congratula. Tutto si svolge in maniera abbastanza naturale. Non come qualche anno fa, quando conquistai la promozione in D1 al termine di un doppio di spareggio vinto al terzo set. Il matchpoint che ci portò in D1, con me a servire sul 5-4 del terzo set in vantaggio 40-30 nel doppio di spareggio, e mio fratello a chiudere la volée di rovescio per dire basta a una contesa durata molte ore, mi fece assaporare la gioia di un successo sportivo, io che da solo non sono mai stato tanto bravo a gestire vittoria e sconfitta (e dunque la pressione) alla stessa maniera, come recita la famosa frase di Kipling sui muri di Wimbledon. Allora alzai le braccia al cielo, questa volta ci siamo fatti una foto di gruppo al termine del doppio vinto, giusto per avere un ricordo. È la fine della sofferenza che genera felicità, più del rovescio lungolinea chiuso, evidentemente.