Abbiamo problemi con la gente.
By Claudio Giuliani & Daniele Vallotto Posted in spotting on 13 Aprile 2016 8 min read
È un pomeriggio qualunque di marzo a Indian Wells e Roger Federer, il numero 1 del mondo, il tennista più forte di tutti, il campione in carica di dodici tornei del circuito (dei sedici a cui ha partecipato nelle ultime 52 settimane) e ovviamente il campione in carica di Indian Wells, scende in campo contro un tennista argentino che porta i capelli raccolti in un codino proprio come usava fare Federer prima di diventare il campione invincibile che tutti ammirano e temono. L’ultima sconfitta di Federer risale ad agosto, quando lo svizzero perse in due strani set contro un certo Andy Murray, che allora è nient’altro che una promessa del tennis con una storia tutta da raccontare. Quella di Federer, invece, è in pieno svolgimento: nel 2006 ha perso cinque partite, una contro Murray, appunto, e quattro contro l’unico tennista che riesce a rendere il circuito appassionante, Rafael Nadal. Per giunta, Nadal ha battuto Federer in tre finali consecutive sulla terra, evitando un Career Grand Slam e, chissà, forse perfino un Grande Slam.
Ma si parla di terra battuta, mica di cemento, e lì Federer è pressoché imbattibile. La fragorosa sconfitta con il lucky loser Guillermo Cañas, arrivata dopo la bellezza di 41 vittorie di fila, è un terremoto: è l’inizio della fine? Il torneo di Miami, due settimane più tardi, certificherà che Federer non è più il tennista inscalfibile dell’ann0 prima. Cañas lo batterà di nuovo e a quel punto non ci sono più dubbi: il regno di Federer sta per terminare. La stagione però, nonostante un’altra sconfitta in finale al Roland Garros, non si chiude in maniera molto diversa dalla precedente e bisognerà aspettare il 2008 per considerare definitivamente chiusa la parentesi più vincente del tennista più vincente della storia.
Quello che è successo oggi a Montecarlo potrebbe assomigliare per molti versi a quanto successe nel 2007 a Federer. Djokovic è già stato sconfitto in stagione, ma chi avrebbe il coraggio di sostenere che ci sia un paragone tra un ritiro e una sconfitta vera e propria? Insomma, ricorderemo il 13 aprile 2016 per due eventi sportivi: l’ultima partita di Kobe Bryant in NBA – il Mamba day celebrato anche dalle Nike di Federer e Nadal – e la prima vera sconfitta di Novak Djokovic nel 2016 per mano di un tennista che contro i primi dieci del mondo non aveva mai vinto. Non conta quella di Doha, quando il n.1 del mondo si ritirò contro Feliciano Lopez per una congiuntivite. Novak Djokovic non perdeva un match al debutto in un torneo da Madrid 2013, quando fu un altro giovane di belle speranze, Grigor Dimitrov, a battere il serbo. Ma se la sconfitta contro Dimitrov non fece molto scalpore, nessuno, proprio nessuno, pensava che oggi Djokovic potesse perdere contro Jiri Vesely.
Ad un certo punto ci si è ritrovati tutti assieme, chi seduto sulle tribune in un caldo pomeriggio primaverile di Montecarlo, chi davanti la televisione dei nostri salotti, senza contare gli imboscati in ufficio con smartphone su Tennis TV e auricolare nelle orecchie o a fare refresh compulsivo sul livescore ATP, a tifare per questo tennista ceco classificato al numero 55 della classifica mondiale. Un mancino con un buon braccio, un buon talento, ma che non sembrava avere l’afflato del campione, quello necessario per vincere tante partite di fila o, figuriamoci, di fare partita pari con il tennista più forte del pianeta.
Con l’arrivo di Nick Kyrgios, Dominic Thiem e di Alexander Zverev, c’è stata la tendenza a dimenticarsi di Jiri Vesely, un classe ‘93 come Thiem che per ora ha il suo best ranking al numero 35. E a ragione, forse: Vesely è un tennista di scuola ceca che non sembra avere né i colpi di Berdych, né la cattiveria di Lendl. È un buon tennista, nulla più. Ha una storia di successo da junior (ha vinto gli Australian Open 2011 sia in singolare sia in doppio) ma la sua sembra la classica carriera in cui le ottime premesse non sono seguite dai risultati che ci aspettava. Vesely ha cominciato a farsi notare nel 2014, quando è salito in classifica grazie a dei buoni risultati nei challenger ma è dal 2015 che ha cominciato a giocare stabilmente nel circuito maggiore. Tuttavia, nel suo curriculum c’è ben poco da cerchiare: un torneo minore (Auckland), qualche sconfitta notevole (per esempio un terzo turno con Murray ad Indian Wells), delle vittorie sudate (una al quinto set contro Monfils a Wimbledon) e tanti altri risultati che di certo non hanno conquistato i titoli dei giornali. Ieri ha dovuto lottare per quasi due ore e mezza contro un altro tennista onesto, Teymuraz Gabashvili. Il premio in palio era un’ora, forse un’ora e mezza, da sparring partner per l’esordio nel torneo di Novak Djokovic. Ventiquattro ore dopo la vittoria contro Gabashvili – che ha servito per il match sul punteggio di 6-3 5-4 – Vesely ha finalmente conquistato quei titoli che gli sono sempre stati negati.
Mentre Djokovic sbagliava tutto il possibile, con percentuali disastrose in risposta, dritti che andavano inspiegabilmente larghi e le solite volée affossate a mezza rete, dall’altra parte c’era uno che ha cominciato a crederci, che ha sbagliato poco e che, soprattutto, ha gestito bene la pressione dei momenti importanti. E a dargli una mano in questi momenti, il finale di partita, sono stati i tifosi del Country Club di Montecarlo. Forse perché non amano Djokovic? No: perché amano il tennis, e il tennis di questi tempi ha un gran bisogno di imprevedibilità. E allora tutti hanno iniziato a sostenere questo ceco coi capelli corti e la bandana rossa, incitandolo ad ogni punto. Poco importa che il numero uno del mondo stesse offrendo uno spettacolo poco edificante. Nel primo set Djokovic ha vinto due punti in risposta, nel secondo ha aggiustato qualcosa e ha vinto comodamente per 6-2, ma nel terzo è risprofondato in un mare di errori gratuiti che gli sono costati i break in apertura che hanno deciso la partita. Ma sarebbe ingiusto limitare la partita di oggi agli errori di Djokovic.
Nell’ultimo game, sotto 0-15, dopo che Djokovic gli aveva annullato un matchpoint con una volée comoda ma piuttosto insicura nel game precedente, Vesely si è trovato una palla attaccata al corpo in seguito a un rovescio lungolinea molto carico di Novak. Lui, invece di rimettere, ha giocato una smorzata magistrale. Mentre la palla lasciava la sua racchetta per superare il nastro e morire dolcemente al di là della rete, Vesely si è irriggidito, si è messo sulle punte per guardare la palla filare dritta verso il suo avversario, senza la possibilità di tornare indietro. Gli applausi convinti dopo il punto più bello della partita hanno scrollato dalle grosse spalle di Vesely le ultime paure: la partita doveva vincerla lui e quel punto ne era la dimostrazione. Erano i tifosi presenti sulle tribune a volerlo, gli appassionati davanti alle tv di casa a chiederlo, e l’interesse per il tennis in generale a renderlo necessario. Ad un certo punto è stato più importante, per i tifosi, avere un albo d’oro senza un’altra incisione del nome di Djokovic che un campione da ammirare per il resto della settimana. Meglio che a vincere siano altri, meglio che a Montecarlo rinasca la speranza in un tennis combattuto.
This may have been the biggest point of the last game. At 0-15, #Vesely hits a BEAUTY of a drop shot. https://t.co/Det8JBzsyk
— TennisTV (@TennisTV) April 13, 2016
Niente di più facile.
È stata una sconfitta roboante e inaspettata, l’albero grande che cade nella foresta, e chissà se ricorderemo Jiri Vesely come quello che aprì la crepa nel muro, il 13 aprile 2016 dopo il 9 novembre 1989. Di quello che farà il ceco nel prosieguo del torneo ci interessa poco. Perderà magari al prossimo turno, e di sicuro noi continueremo a seguirlo distrattamente come abbiamo sempre fatto fin qui. A noi interessava che si riportasse incertezza nei risultati e questo ragazzone ceco è stato il classico eroe del giorno che ha sparigliato delle carte ormai polverose.
Ma quale significato ha la sconfitta di oggi? In realtà, ne ha ben poco. Di partite come queste, recentemente, Djokovic ne ha giocate parecchie. Tutti ricordano i 100 errori non forzati negli ottavi di finale agli Australian Open contro Simon, ma fa ancora più impressione l’incredibile bilancio tra i 6 vincenti e 34 errori nella vittoria in due set contro Thiem a Miami. Anche se in conferenza stampa si è detto deluso, Djokovic è sembrato quasi sollevato da una sconfitta che prima o poi doveva arrivare. «Ora mi prenderò un po’ di vacanza». Il sottotesto è chiaro: meglio qui che Parigi. La sconfitta della salute contro Cañas non impedirà a Federer di vincere un altro Wimbledon, un altro US Open, un altro Masters. Non il Roland Garros, però, e Djokovic deve forse augurarsi che le analogie con il 2007 dello svizzero finiscano a Montecarlo.