Abbiamo problemi con la gente.
In tutto il 2015, Angelique Kerber aveva vinto sei match negli Slam: nessuno a Melbourne, due a Parigi, due a Londra, due a New York. Neanche un ottavo di finale, per dire, ma ben quattro tornei vinti, tutti di categoria Premier: Charleston, Stoccarda, Birmingham e Stanford. Quattro titoli e quattro superfici diverse, perché quel tennis là si adatta un po’ a tutto. Potrebbe sembrare che l’erba non dovrebbe favorirla, invece Wimbledon è l’unico Slam in cui ha raggiunto i quarti più di una volta. Anche se l’anno scorso non ha brillato nei tornei che contano di più, Kerber è arrivata alle WTA Finals e ha lasciato il torneo con un po’ di rammarico dato che si giocava l’accesso con Petra Kvitova ed è uscita solo per aver perso contro Lucie Safarova, la gamba zoppa (perché già eliminata) del gruppo bianco. Le bastava un set ma finì 6-3 6-4 per Safarova e la vittoria di Lucie qualificò l’amica Petra, poi battuta in finale da Agnieszka Radwanska in una finale tra miracolate. Alcuni media tedeschi sentirono la tedesca lamentarsi, in uno dei cambi campo, della formula del round robin che ti fa giocare con il tarlo della calcolatrice e dei possibili scenari. Kerber è una tennista pragmatica, e si vede. I calcoli, per lei, hanno poca importanza. Eppure la consapevolezza che le sarebbe bastato vincere un set la deve aver distratta al punto da perdere un match che una Kerber concentrata al cento per cento non avrebbe mai perso.
Alla fine di quella partita, nella conferenza stampa, Kerber confermò che i calcoli non le piacciono molto. Poi disse una frase che allora sembrò la solita frase di circostanza – e lo era – mentre oggi ha tutto un altro sapore: «Quest’anno è stato un buon anno. Ho vinto quattro titoli e ho chiuso tra le prime dieci per il quarto anno di seguito. Non sono andata bene nei Major, ma mi rifarò l’anno prossimo». Non poteva immaginare che avrebbe migliorato il bilancio del 2016 in uno Slam solo, ma qualcosa deve essere scattato quando, poche settimane prima delle WTA Finals, arrivava in finale – e vinceva – una tennista che ha avuto un ruolo molto importante nella storia tennistica di Angelique: Flavia Pennetta. Il trionfo della brindisina deve aver ispirato in qualche modo Kerber più di altre sorprese avvenute negli anni precedenti. Fu proprio Flavia ad essere sconfitta da Kerber in quel quarto di finale degli US Open 2011, quando tutti dissero che Pennetta aveva perso una grande occasione e nessuno avrebbe potuto prevedere che quella tedesca al numero 92 del mondo sarebbe entrata stabilmente tra le prime dieci del mondo. Non che negli anni scorsi non ci siano state vittorie a sorpresa (proprio gli US Open 2011, per esempio, ma anche Wimbledon 2013), ma aver visto vincere Pennetta, quella tennista che aveva segnato un punto fondamentale della sua carriera, ha contato qualcosa nella vittoria di oggi.
Se c’è qualcosa che non manca alla prima vincitrice Slam tedesca dopo Steffi Graf è proprio quella qualità che si rimproverava mancasse a Fräulein Forehand: un enorme serbatoio di grinta. Oggi Kerber l’ha dimostrato ancora una volta, come se ce ne fosse bisogno. Ma il timore era che Angelique facesse la fine di tutte quelle che hanno affrontato negli ultimi tre anni Serena Williams in finale. E il fatto che avesse sconfitto l’unica che si era ribellata, cioè Viktoria Azarenka, smorzava di poco – ma poco poco – i timori. Invece Kerber è scesa in campo con una voglia di vincere davvero ammirabile, anche per chi non riesce ad apprezzare il suo tennis poco elegante. I colpi di Angelique sono prevalentemente interlocutori, inutile negarlo. Ed è altrettanto innegabile che la tedesca dia il meglio di sé quando deve spostarsi e trovare angoli difficili da pensare e da eseguire. Oggi, contro una tennista che a 34 anni e mezzo si muove ancora più che bene, Kerber ha dovuto inventarsi traiettorie incredibilmente strette per mettere in difficoltà Serena Williams. Ed è un lavoro che ha pagato: Serena, specie nel primo set, si è impelagata in una serie di errori che hanno pesato parecchio nel conto del primo set (ha commesso 24 errori, esattamente quanti ne ha totalizzati tra secondo e terzo).
Das liegt TGD-Clubhaus herum "glänzte mit Ballverliebtheit, Spielübersicht und mutigem Angriffstennis" #AusOpen pic.twitter.com/G99vYXAZF6
— Inga Radel (@Inga_Bici) January 30, 2016
Il primo tennis club di Angelique Kerber, il Tennisgesellschaft Düsternbrook, la descriveva come una tennista di nove anni che “brilla per la sua visione di gioco e per il suo coraggioso gioco di attacco”.
Perdendo il secondo set, Kerber si è portata in una zona pericolosa perché Serena in carriera non aveva mai perso una finale Slam al terzo, ma oggi Kerber ha interrotto anche questa tradizione (era pure imbattuta nelle finali agli Australian Open). Oggi Serena, infatti, ha incontrato una tennista che non ha mai smesso di credere alla vittoria. Non ha smesso quando Serena ha recuperato il break nel primo set e ha cominciato a ringhiare per intimorirla; non si è depressa per un secondo set in cui la statunitense ha limitato al massimo gli errori (appena cinque); e soprattutto non si è fatta prendere dal panico quando ha perso due game di fila sul 5-2 e sembrava si profilasse l’ennesimo miracolo Williams. Invece il miracolo l’ha portato a termine questa tennista di 28 anni, i cui risultati, specie nei primi anni della carriera, non avrebbero mai fatto ipotizzare un exploit di queste dimensioni. A 23 anni, quando raggiunse la semifinale degli US Open, la conoscevano in pochi. E non erano poi molti quelli che cominciarono a considerarla una tennista capace di vincere uno Slam. Nonostante la costanza di risultati, a Kerber si è sempre rimproverato un tennis molto remissivo, alla costante ricerca dell’errore avversario. Il primo set contro Serena ha confermato ciò che si pensava di Kerber: la tedesca ha commesso appena tre errori e ha concluso il parziale con quattro vincenti. Nel secondo ha raddoppiato sia gli errori sia i vincenti ma nel terzo il rapporto tra i vincenti e gli errori è cambiato drasticamente: quattro vincenti ad ogni errore.
Oggi sembra impossibile, ma nel 2009, quando Kerber aveva poco più di vent’anni, molti la descrivevano come una tennista poco propensa ad allenarsi, una giocatrice pigra e piuttosto cocciuta. Lo ha confermato pure lei in un’intervista di qualche anno fa al magazine tedesco Tennis Magazin. Poi nel 2011 Kerber decide di allenarsi per qualche settimana alla Tennis University di Offenbach, un’accademia gestita da Alex Waske e dall’ultimo finalista tedesco in uno Slam, Rainer Schüttler. «Per la prima volta nella mia carriera ho lavorato sulle mie debolezze fisiche. Prima non mi comportavo in maniera professionale. E dopo quelle quattro settimane ho raggiunto la semifinale agli US Open». Fu una semifinale che cambierà la sua carriera perché quel 2011 e quelle dodici sconfitte al primo turno stavano suggerendo ad Angelique che forse il tennis non faceva per lei. Invece non si è arresa e ha trasformato la sua maggiore debolezza nel suo principale punto di forza. Oggi affrontare Kerber nell’ultimo set è un compito difficile per qualsiasi tennista, perché la tedesca dà il meglio di sé quando capisce che la sua avversaria comincia ad arrancare.
«Non sono una tennista facile con cui lavorare», ha detto dopo la vittoria di oggi. «In alcuni momenti della mia vita non ho creduto abbastanza in me stessa. I miei allenatori vedevano che mi allenavo molto bene ma poi in partita non riuscivo ad applicare quanto avevo fatto in allenamento. Ma ora ho trovato il team perfetto». In realtà il team di Kerber non è poi cambiato molto: il suo allenatore di sempre è Torben Beltz, con cui si era separata per circa un anno. I due si conoscono dal 2003, quando Kerber e Beltz facevano parte dello stesso tennis club, il TC Alsterquelle: Beltz aveva giocato per due anni nei college statunitensi e voleva diventare un coach, mentre Kerber era una quindicenne che aveva già vinto due volte il titolo nazionale under 18. Per dieci anni Kerber e Beltz hanno lavorato assieme, finché la tedesca decise di assumere Benjamin Ebrahimzadeh, conosciuto nell’accademia di Waske e Schüttler. Ma dopo un 2014 deludente, Kerber e Beltz hanno ripreso a lavorare assieme e la sintonia di chi si conosce da tanti anni ha giocato un ruolo importante nella rinascita di Angelique. Anche se Beltz non ha mai giocato a livello professionistico, la stima e la fiducia tra i due non è mai stata in discussione. Il vero salto di qualità, però, è arrivato con un fisioterapista assunto a metà 2015, Alex Stober, che ha lavorato con Li Na fino a quando la cinese ha annunciato il ritiro e, per un breve periodo, con Petra Kvitova (oltre ad altri campioni Slam come Pete Sampras, André Agassi e Gustavo Kuerten). Li, che si è ritirata l’anno scorso dopo essersi arresa ai dolori al ginocchio, ha ringraziato varie volte Stober e la sua “mano guaritrice” mentre Tommy Haas, che di infortuni e recuperi miracolosi è parecchio esperto, ha detto: «Se avessi conosciuto Alex prima, mi sarei risparmiato un bel po’ di infortuni». Oltre a Beltz e a Stober, con Kerber lavora anche un altro fisioterapista, assunto di recente: Simon Iden, fisioterapista di 28 anni che si farà un tatuaggio per festeggiare la vittoria di oggi (mentre Beltz si lancerà col paracadute e l’intero “Team Angie” si iscriverà ad un corso di salsa: le scommesse possono arrivare a questo punto, sì).
Al di là della vittoria di oggi, però, il risultato più sorprendente che ha ottenuto Kerber è stata la reazione di Serena Williams. La numero 1 del mondo, per larghi tratti del primo set, ha giocato in modalità US Open: bloccata dalla tensione, ha finito per commettere tanti, troppi errori. E quando il tennis non c’è, Serena prova a compensare con il suo agonismo. Ha cercato di intimorire Kerber in tutti i modi, ma la tattica ha funzionato per poco. A fine match, quando Kerber si stava ancora riprendendo dall’emozione, Serena ha attraversato il campo e ha abbracciato la sua avversaria. Forse era sollevata che fosse finita, o forse, più semplicemente, ha realizzato che oggi non era lei la più forte in campo. «Quando gioco, tutti vi aspettate che io vinca. Mi piacerebbe essere un robot, non lo sono», ha detto a fine partita. E oggi la reazione di Serena è stata umana al cento per cento. Ha sorriso, si è congratulata, ha accettato il verdetto del campo. Sembra paradossale dirlo ma gli US Open dello scorso anno, i fantasmi di una sconfitta che ci racconteremo per molto altro tempo ancora, le lacrime e la delusione, sono state spazzate via da un’altra sconfitta. Ma rispetto alla partita con Roberta Vinci, questa volta Serena ha potuto fare poco. La partita non è sempre stata nelle sue mani. Quando Kerber ha vinto quel decisivo sesto game del terzo set, sorprendendo Serena con due dropshot giocati all’improvviso, la tedesca ha fatto girare il match. E da quel momento in poi, le sorti del match sono passate nelle sue mani. Serena lo ha accettato e oggi, almeno per un giorno, Serena non è stata il robot che siamo abituati a vedere in campo. Domani chissà. Ma anche questo risultato fa parte della grande vittoria di Angelique Kerber.