Abbiamo problemi con la gente.
Quando Luigi XVI si decide a convocare gli Stati generali la figura del re non è certo in discussione. Lo stesso ricevere i rappresentanti del Terzo Stato in camera da letto, ancor prima che una forma di sovrana indifferenza, era un modo per ribadire che l’ordine era immutabile e che i 174 anni passati dall’ultima convocazione non significavano nulla: il Re continuava a essere il Sole, la sfera celeste dal quale tutto partiva, la testa che dettava gli ordini al resto del corpo.
Eppure si arrivava a Parigi con ben più di qualche mugugno, primo fra tutti la permanenza del “voto per ordine” che permetteva a clero e nobiltà di mettere in minoranza il Terzo Stato. Più numeroso, quest’ultimo chiese che si passasse al “voto per testa”, trovando l’ovvia opposizione degli altri due ordini. Il re, dopo aver a lungo disprezzato queste richieste, fece una cosa curiosa: raddoppiò il numero dei deputati del Terzo Stato, lasciando invariato il voto per ordine.
Fece quello che il duca d’Orleans chiamò “concessione senza oggetto”. Di fatto non serviva a nulla raddoppiare il numero dei deputati se si continuava a votare per ordine. Ma, avvertì il duca, «stia attento, Maestà, perché questa che pure è una concessione senza oggetto rappresenta un cedimento, una crepa nella sfera liscia della Sua graziosa Maestà. E speriamo che questa crepa non sia il primo segnale di un cedimento rovinoso di un regno perfetto e inscalfibile».
Tutto questo, si parva licet, veniva in mente il 17 novembre, quando un regale Novak Djokovic si lasciava battere, senza neanche troppo dispiacersi, dal sovrano detronizzato, Roger Federer, nella seconda partita del Round Robin delle Finals di Londra. La sconfitta, per Djokovic, non significava assolutamente nulla, all’interno di un’annata prodigiosa in cui aveva mostrato ripetutamente quanto potesse essere ampio il suo divario con il resto del regno.