menu Menu

Dalla parte di Murray

Djokovic ha una sola ossessione, Nadal sta cercando sé stesso, Federer comincia a fare bilanci: e se fosse Murray il più forte?

Djokovic ha una sola ossessione, Nadal sta cercando sé stesso, Federer comincia a fare bilanci: e se fosse Murray il più forte?

Andy Murray aveva compiuto da poco 19 anni quando ricevette l’invito per giocare a Wimbledon. Alle spalle aveva solo quattro partite del circuito maggiore e una, la prima, addirittura sulla terra rossa di Barcellona. Non era andata male quella volta: al cospetto di un buon giocatore, Andy vince il primo set, anche se finisce col perdere la partita. Murray dovrà aspettare un paio di mesi per tornare a misurarsi con i grandi e al Queen’s va meglio, vince il suo primo match, supera anche Taylor Dent e perde solo 7-5 al terzo con Thomas Johansson, che neanche un mese dopo arriverà in semifinale a Wimbledon. Proprio a Wimbledon, alla disperata ricerca di qualcuno che sostituisse Henman, pensano di dare al teenager di Dunblane un’altra wild card. L’esordio è quasi prestigioso, perché Andy si trova di fronte il carneade che sconfisse Sampras nel 2002, George Bastl e lo supera agevolmente. Al secondo turno il ragazzino ha di fronte Stepanek, la testa di serie numero 14 del torneo. Murray non si scompone e con un triplice 6-4 ottiene il suo primo record: mai uno scozzese era arrivato al terzo turno del torneo londinese. Al cospetto di David Nalbandian Andy vince i primi due set, prima di crollare fragorosamente. Ma la strada è segnata: è l’uomo delle provvidenza, quello che riuscirà a far dimenticare Fred Perry, quello che vincerà Wimbledon.  Ma è forse anche l’inizio di un equivoco, si comincia a credere che Murray sia poco adatto ai campi lenti. In effetti la facilità di tocco, un buon servizio, il posizionamento a rete, sono quelle di un giocatore d’attacco. Ma a queste qualità lo scozzese coniuga un rovescio a due mani di un’efficacia spaventosa e una capacità di remare a fondo campo seconda forse solo a quella di Nadal. Insomma, una volta irrobustitosi sarebbe sembrato naturale vederlo sempre molto avanti sulla terra rossa.

Non è andata così, fino all’anno scorso. Murray alla fine ha sì vinto Wimbledon e le Olimpiadi su erba, ha collezionato un gran numero di successi nei tornei Master 1000 e una volta ha vinto anche a New York. Ma nonostante una semifinale parigina nel 2011, sulla terra rossa aveva fatto davvero poco. L’anno scorso Murray ha vinto il suo primo torneo sulla terra, a Monaco, seguito da quello a Madrid contro Nadal. E a Parigi è di nuovo arrivato in semifinale ma a differenza delle due volte precedenti (al 2011 aveva aggiunto il 2014), Andy aveva trascinato Djokovic fino al quinto set, recuperando da due set sotto, e chissà, se non ci fosse stata l’interruzione magari la partita poteva finire in un altro modo. Quest’anno la semifinale di Montecarlo, la finale di Madrid e la vittoria, domenica scorsa, a Roma. Finalmente i risultati di un terraiolo.  Ma cos’era successo? E cosa sta succedendo?

Andy Murray è sempre stato “il Ringo Starr dei Beatles”. Stretto tra Federer, Nadal e Djokovic, lo scozzese ha molto spesso lasciato il passo a ciascuno di loro, perdendoci regolarmente nelle occasioni che contavano. Impensabile che possa essere un problema tecnico – sono poche le cose che Nadal e Djokovic sanno fare meglio di lui, e sicuramente meno di quelle che sanno fare peggio – una condizione fisica spesso straripante Murray ha pagato il prezzo di uno sport che richiede dedizione totale. Perché a tennis vinci con tre cose: la condizione fisica, la capacità tecnica e una sovrumana capacità di concentrazione. Capzioso chiedersi cosa conta di più, anche perché condizione fisica e mentale è quasi banale sottolineare come siano intimamente correlate. Ma non è un mistero che fuori dal campo lo scozzese è molto diverso da quei tre. Non tanto per la scandalosa idea, in un modo fermo agli anni ’40 come quello del tennis, di avere un coach donna – e come se non bastasse anche omosessuale – o per l’espressione di, incredibile, idee politiche abbastanza radicali, quanto per la sensazione che il tennis, nella vita di Murray, occupi un posto importante (forse) ma non il più importante (sicuramente). La nascita della figlia con quella meravigliosa constatazione «a cosa mi servirebbe vincere tanti tornei se poi mia figlia finisse col dire agli amici “sì, ha vinto tanto, ma non c’era mai”?», rivoluzionaria in un mondo del tutto tenniscentrato, è soltanto il punto di arrivo di uno che aveva pensato di non giocare le Finals per prepararsi meglio alla Coppa Davis (qualcosa come saltare la finale di Champions per giocare quella di Coppa Italia) che quando vince un torneo non si inginocchia, non si strappa la maglietta, non crolla svenuto sulla terra.

Andy Murray finale Wimbledon 2013 Djokovic
Difficile esprimere peggio la propria gioia.

La terra rossa esalta le dimensioni fisiche e mentali. In campo devi starci a lungo e gli scambi sono lunghissimi. Hai il tempo di pensare, di riflettere, e questa non è una cosa buona per uno sportivo contemporaneo. Viene in mente quello che dissero i compagni di Ganea negli spogliatoi dopo Romania-Inghilterra (Europei del 2000). Alla richiesta di spiegazioni sul come mai il rigore decisivo al novantesimo l’avesse tirato un giocatore appena entrato dalla panchina e non certo uno specialista, ridacchiando risposero che «in questi casi serve uno dalla mente sgombra…» Sulla terra rossa devi pensare prima al tennis, poi al tennis e infine al tennis. Non c’è spazio per altro, a meno di non chiamarsi Wawrinka e cominciare a sparare alla cieca qualsiasi cosa passi dalle tue parti. E Andy Murray ha sempre troppe cose per la testa, quindi fino a quando la tecnica era sufficiente per superare qualcuno bene, altrimenti alla fine vinceva sempre l’altro. Quello che sembra cambiato è che i dubbi sembrano essersi fatti strada nei suoi tre compagni di viaggio. Djokovic pare vivere pensando sempre a Parigi, Nadal è in cerca di se stesso, Federer non sa cosa fare della sua schiena e dei suoi anni. Quando scendono in campo a differenza di un tempo pare abbiano acquistato la consapevolezza che non esiste solo il tennis, nessuno è più un ragazzino e la maturità inevitabilmente porta riflessione. E la mente deve essere sgombra. Se i quattro attenuano, come sembra, il divario mentale, il rischio è che Andy Murray si scopra il più forte di tutti, perché è abituato a questa vita, lui la fa da sempre. A Montecarlo Nadal dopo l’ultimo punto crollò a terra in lacrime di gioia; a Madrid Djokovic si fece il segno della croce e poi ha sfogato la sua gioia misto a sollievo.

A Roma, dopo l’ultimo punto contro Djokovic, a guardarlo poteva sembrare che il suo passante di rovescio fosse finito lungo, quanto sembrava scorato, ha salutato Djokovic e ha brevemente applaudito il pubblico. Andy Murray non è come gli altri, lui è abituato. Lo sa che la vita è là fuori.

Andy Murray


Previous Next

keyboard_arrow_up