Abbiamo problemi con la gente.
Essere Tomas Berdych. Quegli occhi di ghiaccio, quell’espressione talmente vuota che deve pur voler dire qualcosa, quell’arrendevolezza quasi serafica sono termini di un’equazione difficile da risolvere. Sono ormai più di sei anni che Berdych è tra i top 10, una certezza che solo altri quattro tennisti possono (potevano) vantare, indovinate quali? Poi è successo che questa settimana, con i punti sottratti dal Masters, Roger Federer è uscito dai primi 10 per la prima volta da quattordici anni. È stato scritto di tutto: è la fine di un’epoca (come se non lo sapessimo), ah quanto eravamo giovani, te lo ricordi il 2002? L’uscita dai primi dieci del mondo, uno dei parametri che si utilizzano per definire il valore di un tennista, è stata commentata da tutti. E in effetti è un avvenimento molto importante, per uno che è rimasto così a lungo tra i migliori. Ma il fatto che la settimana prima, dopo oltre sei anni, Tomas Berdych sia uscito dalla top 10 per la prima volta, non ha scaldato nessuno. Berdych è uscito per una sola settimana, nella notte delle streghe, poi in quella successiva i pianeti si sono riallineati e il ceco è tornato tra i primi dieci della classifica. E a meno di circostanze molto particolari, Berdych chiuderà l’anno in top 10 per il settimo anno consecutivo.
Ma il ceco non sarà al Masters, il torneo dei migliori. Quest’anno, per la prima volta dal 2010, Berdych non si è qualificato per il rotto della cuffia, né spererà nell’infortunio di qualcuno, visto che ha fatto sapere che l’eventuale posto di Raonic, che ha un infortunio alla coscia destra, non gli interessa. Evidentemente, dietro a quegli occhi spesso attoniti, c’è una volontà orgogliosa. Sia lui che Tsonga hanno preferito lasciare la panchina a due più giovani di loro, ché poi tanto giovani non sono, per provare quell’ebbrezza che a due come loro non fa ormai nessun effetto. I tennisti come Berdych, a giocarsi i titoli più importanti, sono abituati da un bel pezzo. Si sono abituati a tutti i rituali di una partita che conta, le lunghe interviste del turno precedente, che cosa faranno questa volta, cosa pensano di cambiare rispetto a due mesi fa; si sono abituati alle ovazioni del pubblico, pronto a concedere supporto allo sfavorito per poter vedere un po’ di battaglia; e si sono abituati alle parole degli avversari, sempre molto galanti nel concedere le parole di conforto. Per Berdych, però, un Masters da alternativa alle alternative non era possibile.
Un’appendice che fa i capricci, un altro anno di delusioni, i 30 anni che sono già passati da un pezzo. Quest’anno ha giocato una sola finale, in un 250 per giunta. Niente semifinali nei 500; niente semifinali nei 1000. Poi all’improvviso una semifinale a Wimbledon, aiutato certamente da un tabellone favorevole ma altrettanto certamente dall’esperienza, perché 50 vittorie a stagione serviranno pur a qualcosa. Contro Andy Murray, però, si può solo puntare a farsi meno male possibile. E in questo, Berdych è un maestro. 6-3 6-3 6-3: periodico, giusto, incontestabile, liberatorio. Il resto dell’anno Berdych, che ad agosto ha assunto Ivanisevic per cercare un miracolo à la Cilic, lo ha passato a giochicchiare, perdendo qualche partita di troppo e costringendosi ad un mezzo miracolo per conquistare la qualificazione a Londra. Avesse raggiunto uno dei tanti quarti di finale della sua vita agli US Open, che invece ha saltato per infortunio, probabilmente a Bercy avrebbe avuto più chance di tutti. E invece, per poter andare alle ATP World Tour Finals ancora una volta, avrebbe dovuto battere Murray.
Nella prima settimana fuori dalla top 10, Berdych ha raggiunto ancora una volta i quarti di finale. Prima di quello con Murray a Bercy, ne ha giocati 128, di quarti di finale. Il primo, 12 anni fa, arrivò alle Olimpiadi di Atene 2004 e Berdych, che non aveva nemmeno 18 anni, ci arrivò battendo al secondo turno Roger Federer, già re di Wimbledon, Melbourne e New York; negli ottavi, contro Robredo, vinse 8-6 al terzo. Contro James Blake, però, subì la prima di tante sconfitte dolorose, anche se quella fu la meno amara di tutte. A due passi dalla vittoria, Berdych si è spesso dovuto arrendere a qualcuno di più forte. Non è certo sorprendente che uno dei tennisti più costanti nell’era dei Fab Four si sia dovuto accontentare così tante volte del quinto posto. Ma anche quando non c’erano di mezzo Federer, Nadal, Djokovic o Murray, Berdych si è spesso fatto da parte, lasciando vincere qualcun altro. Contro Murray, a Bercy, Berdych a provato a sovvertire il pronostico. Ha giocato un buon primo set, non ha mai sofferto al servizio contro la migliore risposta del circuito e al tie-break è andato avanti 6-1. Ma non è servito nulla, come sempre. Murray gli ha annullato tutti i set point – a che sarebbe servito vincere il set, del resto – e poi, alla prima occasione buona non ha perdonato. Berdych, che di perdono se ne intende, ha lasciato andare il secondo e ha fatto scivolare via l’ennesima stagione da incompiuto, almeno per chi utilizza degli standard poco umani.
Quel che fa davvero male, quando vediamo Berdych perdere, è che in fin dei conti sappiamo molto bene che dietro a quei colpi così puliti e a quello sguardo vitreo, tipici di un robot, si nasconde il più umano dei tennisti. Ma non riusciamo a comprenderlo, non riusciamo a compatirlo, perché Berdych si è sempre voluto comportare come un robot. Ed è questo che non gli riusciamo a perdonare, quando perde contro i veri robot. Ma lui, in fondo, è uno buono: domani se ne sarà già dimenticato.