Abbiamo problemi con la gente.
È uscita di scena a New York troppo presto contro Denisa Allertova, ventitreenne tennista ceca alla seconda apparizione agli US Open, e ormai le sue delusioni non fanno più rumore come qualche anno fa, quando ancora tutti ricordavano quel torneo. È la terza sconfitta al primo turno di Ana Ivanovic allo US Open, ultimo slam del calendario. E c’è da rimanere sorpresi che non sia effettivamente una sorpresa. Ivanovic sta attraversando una parabola discendente che è iniziata dopo la prima e unica vittoria Slam del Roland Garros 2008; una curva che la sta portando inesorabilmente sulla strada di Anna Kournikova, oggi istruttrice di fitness in California che twitta consigli sul mangiare sano ed equilibrato e li intervalla con qualche foto di frutti tropicali.
Non è una bella fine quella che si prospetta per una tennista che è stata la numero 1 del ranking mondiale a soli 21 anni. Ma oramai chi più chi meno sembra aver capito che la Ana Ivanovic di quel biennio magico 2007-2008 (dal Roland Garros 2007 a quello del 2008 giocò tre finali Slam su cinque) era l’eccezione, mentre quella di oggi è la regola. Ana non vince più un match da giugno e solo una delle ultime cinque sconfitte consecutive sono giustificabili, quella con Suárez-Navarro alle Olimpiadi di Rio, peraltro subìta in rimonta dopo un ottimo primo set. In mezzo ci sono le sconfitte con Caroline Garcia a Maiorca, con Ekaterina Alexandrova a Wimbledon, con Donna Vekic a Cincinnati e infine la più fresca, e magari nemmeno la più dolorosa, contro Denisa Allertova.
Certo, ci sono dei guai fisici a poter giustificare queste performance – l’infiammazione al polso che pare tormentarla da Wimbledon – ma l’impressione generale non cambia: sembra diventato inspiegabile spiegare come Ivanovic sia arrivata ai vertici della classifica mondiale. Se il dritto è uno dei migliori del circuito femminile, ed è uno dei suoi pochi colpi validi del repertorio, il rovescio è molto al di sotto della media. Per non parlare del lancio di palla sbilenco al momento del servizio, divenuto un tratto distintivo quanto improponibile ad alti livelli. Il gioco al volo è migliorabile così come il piano tattico, che a tratti c’è e a tratti scompare.
Ci siamo sorpresi talmente tante volte delle sconfitte di Ivanovic che viene da chiedersi se, piuttosto, non siano state le sue vittorie a essere inaspettate. Oggi, alla soglia dei 29 anni, non essendo più giovanissima, genuinamente ci domandiamo quale sia il famoso fantasma che Ivanovic stia cercando di scacciare per tornare ad alti livelli. Ma poi: è così vero che l’Ivanovic campionessa Slam sia ancora viva, nascosta chissà dove o bloccata da non si sa quale remora psicologica o problema fisico? È forse a questo tentativo di ritrovare se stessa che si devono i continui cambi di coach (ben tredici, come fosse una Zamparini qualsiasi) nella disperata ricerca di qualcuno che la riportasse al successo?
La saga degli allenatori di Ana Ivanovic:
Dejan Vranes (2003-2005)
Erik Van Harpen (2005-2006)
Zoltan Kuharszky (2006-2007)
David Taylor (2007-2009)
Sven Groenefeld (2009)
Craig Kardon (2009)
Sven Groenefeld e Darren Cahill (2009-2010)
Heinz Günthardt (2010)
Antonio van Grichen (2010-2011)
Nigel Sears (2011-2013)
Nemanja Kontic (2013-2014)
Dejan Petrovic (2014-2015)
Nigel Sears (2015-)
Il 2016, al momento, è l’anno più anonimo fra gli ultimi giocati. Nel 2014 Ivanovic ha vinto quattro tornei, ed è tornata in top 5, ma poi negli Slam non ha raccolto risultati degni di nota; nel 2015 è accaduto il contrario, è tornata in semifinale al Roland Garros, ma poi è sparita per tutto il resto dell’anno. Nel 2016 non ha ottenuto buoni risultati né negli Slam (due terzi turni e due primi turni) né negli altri tornei della stagione, c’è giusto il matrimonio con Bastian Schweinsteiger a luglio fra gli highlight della sua annata. E il ranking è in discesa: era numero 15 a gennaio mentre è fuori dalle migliori 30 all’inizio degli US Open.
La carriera di Ivanovic ad oggi è ad un crocevia: la tennista da una parte, la modella/wag/blogger nutrizionista dall’altra. E a pensarci bene, la serba sembra già aver deciso per cosa optare. La verità è che al momento ha all’attivo più servizi fotografici che vittorie nel 2016, ed è opprimente pensare che nonostante i risultati insoddisfacenti sia ancora una delle tenniste che più riescono a catalizzare l’attenzione di fan e media. Si tratta degli stessi mezzi di informazione che quando vince l’apostrofano con l’epiteto “bella e brava”, e che sbattono in prima pagina le sue fotogallery in bikini e non vedono l’ora di fare qualche click facile con il suo aspetto.
È opprimente pensare che forse è proprio per quello che ci sorprendiamo, che continuiamo a parlare delle sue sconfitte come se fossero inaspettate, come se effettivamente Ana Ivanovic ora meritasse di stare in top 10 e se riconquistasse lì un posto sentiremmo che giustizia è fatta, che la meritocrazia forse esiste. Forse è proprio perché, prima che brava, è bella, e tutti siamo stati incantati da questa formula. Perché quando una tennista vince ma è grassottella e brutta, come Bartoli, un po’ ci dispiace, ci sentiamo meno appagati (“il trio delle cicciottelle” docet), mentre se la vincitrice di turno è anche top model allora ci ricongiungiamo con le nostre origini greche e la loro kalokagathia e il mondo sembra un posto migliore.
La realtà è che il gioco di Ivanovic al momento non vale neanche una posizione in top 30, e che Ana non gioca una finale di un torneo WTA da un anno e mezzo e che, negli Slam, è un miracolo vederla arrivare alla seconda settimana. La realtà è che ora Ivanovic dovrà scegliere come essere apostrofata. O bella o brava.