Abbiamo problemi con la gente.
È tutta una questione di dare e ricevere.
Monica Puig è orgogliosamente portoricana anche per motivi che sfociano nell’egoismo, come ammette candidamente lei stessa. Porto Rico è un’isola centroamericana di novemila chilometri quadrati e con la popolazione che pressappoco è quella di Roma (3.800.000 persone circa gli isolani contro 2.700.000 circa i romani, dati riferiti al 2012) e se ottieni buoni risultati sportivi acquisti immediatamente popolarità. Porto Rico in ambito sportivo è famosa soltanto per la boxe, ragion per cui una come Monica Puig è anche una pioniera nel suo campo, il tennis. Non la prima, perché chi guarda questo sport da qualche anno saprà che c’è stata un’altra grande tennista portoricana, Gigi Fernandez, che ha vinto 17 prove dello Slam e 2 ori olimpici nel doppio. Se il parallelo con Roma ancora può essere considerato valido, si può dire che Monica Puig sia diventata l’equivalente isolano di un Francesco Totti.
Cresciuta tennisticamente in Florida, dove si è trasferita con la famiglia per seguire il padre nel lavoro, iniziata al tennis dalla madre che «mi ha dato una racchetta in mano, ed ho iniziato a giocare», Monica Puig passava ogni estate a Porto Rico con i parenti materni. Poi, dopo la prima vittoria portoricana in un torneo dello Slam, il primo titolo WTA portoricano a Strasburgo nel 2014, è stata fama immediata. Tutte cose che Gigi Fernandez formalmente non ha conquistato, visto che gareggiava sotto la bandiera USA. E così che non c’è da stupirsi se Monica Puig si dichiara fieramente «100% portoricana» ogni volta che ne ha le possibilità. Competere in singolare per il suo paese per una medaglia d’oro è l’obiettivo dichiarato da sempre.
«Se avessi dovuto scegliere tra USA e Porto Rico, sarei rimasta con Porto Rico, perché mi fa sentire speciale giocare a tennis in nome di tutta l’isola ed essere là riconosciuta come una figura importante». Il rapporto di Monica Puig con il suo paese è di scambio reciproco, sull’impronta della relazione genitoriale, ovvero con il senso di riconoscenza del figlio verso i genitori. Lei sceglie Porto Rico perché (ma non solo, altrimenti banalizzeremmo) è l’unica tennista ad essersi affermata nel paese, e quindi riceve le attenzioni e il supporto di tutto il paese; ma in cambio sente sulle sue spalle il peso di un’isola intera, da trascinare, onorare e ringraziare con altrettanta fama internazionale. Si tratta di un senso di appartenenza e riverenza che pochi atleti possono vantare nei confronti della loro nazione. «Credo che ci sia sempre una spinta positiva per il mio paese quando uno sportivo fa bene, oppure si qualifica per le Olimpiadi, automaticamente dona un sorriso a tutti. Credo che sia una nostra responsabilità, da atleti, aiutare Porto Rico nei momenti bui».
Questa è la ragione principale per cui Monica Puig sente la competizione olimpica come nessun’altra tennista. E non stiamo parlando di un semplice “attaccamento alla bandiera”; qui si parla di appuntamento doveroso con il destino, da non fallire, visto dalla sua ottica. Una curiosità, che però può far capire qualcosa: le è di recente morto il cane, a cui era molto affezionata; ma come tutti gli amori, finito uno, poi ne inizia un altro. Sapete come si chiama il nuovo cucciolo? Rio. Fatevi un giro sul suo profilo Twitter, per capire quanto sia legata alla competizione.
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Monica Puig si etichetta come boricua. Boricua viene definito quel portoricano la cui famiglia risiede nell’isola di Porto Rico da molte generazioni. Un altro dei suoi soprannomi è Pica, l’hashtag che usa spesso è #PicaPower. Pica deriva dallo spagnolo picar, che tradotto grossolanamente dallo spagnolo significa tagliare, intagliare, affilare, in poche parole limare alla perfezione; cosicché Pica è colei che lavora per perfezionarsi.
«Questa è la cosa più grande a cui io abbia mai partecipato. È vero, ci sono i tornei del Grande Slam, ma queste sono le Olimpiadi. I Giochi Olimpici!» Puig per niente al mondo avrebbe perso l’evento, al contrario di quanti hanno scelto di snobbare la competizione olimpica, chi per i timori del virus zika, chi perché non si ricevono né montepremi né punti per il ranking. Giocatori come Isner, che ha preferito saltare l’appuntamento con Rio per andare a giocare un ATP 250, testimoniano, oltre che la mancanza di tradizione del tennis come sport olimpico, anche uno scarso attaccamento al concetto di rappresentare la nazione giocando soltanto per lo sport, che poi è lo spirito stesso che incarna le Olimpiadi.
Per fortuna esistono ancora giocatori e giocatrici che nutrono la convinzione che il tennis meriti di rimanere uno sport olimpico. Monica Puig ha mostrato incredulità e commozione nelle vittorie prima con Hercog, poi con Pavlyuchenkova, cadendo addirittura a terra dopo aver realizzato di aver battuto 6-1 6-1 la numero 4 del ranking mondiale e campionessa del Roland Garros, Garbiñe Muguruza. Mai Porto Rico è andato così avanti nella competizione singolare. E non che Puig sia la prima a provarci: Kristina Brandi ad Atene 2004 è stata la prima portoricana a vincere un match alle Olimpiadi ma poi si è fermata al secondo turno; mentre Puig continua a lottare con in testa una sola cosa, non guardando ranking, seeding o avversarie: l’oro, ma non come ricompensa individuale, bensì come ringraziamento ad un paese che continua e continuerà a darle tanto, specialmente dopo gli ultimi risultati.
https://twitter.com/fedele_giulio/status/763080818503933952
Il suo è un tennis pulito, essenzialmente da fondocampo; meglio, per lei, non chiamarla a rete, preferisce lo schiaffo al volo rispetto alla volée undici volte su dieci, anche da posizioni improbabili. Giocatrice di ritmo, ha una caratteristica particolare: tende a non cercare gli angoli, ma a giocare forte, profondo e centrale per togliere il ritmo all’avversaria. Se la si fa muovere, allora i suoi colpi prendono imprevedibili traiettorie che tagliano il campo. Ha un gioco di gambe molto veloce e la capacità di spingere palle senza peso con una sicurezza disarmante. Preferisce dettare il gioco, ed ha nei cambi in lungolinea uno dei punti di forza.
Fino a qui sembra di avere descritto una Camila Giorgi portoricana, ed il paragone può saltare agli occhi, ma la capacità difensiva e tattica di Puig è doppiamente sviluppata rispetto a quella della giocatrice italiana. Altra cosa che le due hanno in comune è un buon servizio, che Monica rischia sia con la prima e con la seconda palla. Ha, quindi, un potenziale da top 10 che non si è ancora espresso, un po’ perché, come dice lei, «tendo a maturare più tardi rispetto alle mie coetanee», un po’ perché, e questo lo dice chiunque abbia avuto occasione di osservare i suoi match, è molto fragile dal punto di vista mentale.
Soprattutto nelle grandi occasioni, tende a farsi sopraffare dalle emozioni che la governano. In passato ha avuto molte difficoltà a chiudere i suoi match. Un esempio su tutti, agli US Open 2014 Puig era avanti 4-0 nel terzo set decisivo contro la testa di serie numero 18, Andrea Petkovic, e poi 5-3 nel tiebreak, salvo poi perdere il match. Nel 2016 il trend sembra essere cambiato, Puig è infatti riuscita a vincere due match infiniti contro Kristina Pliskova e Julia Görges agli Australian Open e al Roland Garros, arrivando poi al terzo turno di entrambi gli Slam. La fragilità in campo non si accompagna però alla sua personalità. Perfettamente conscia dei suoi mezzi, ha più volte ribadito che sa che prima o poi «i pezzi troveranno il loro posto». Oggi lavora con Juan Todero, l’allenatore che la segue da Wimbledon 2015 e con il quale ha raggiunto una buona continuità di risultati.
Mancano i grandi exploit, e allora, per adesso, è tutta una questione di dare e ricevere. E se c’è una persona che ha ancora da dare al suo paese, quella è Monica Puig. «Qui non sto facendo realmente il mio lavoro, qui gioco per il mio paese e nessuna cosa può essere paragonata a questo. È una delle cose più speciali al mondo».