Abbiamo problemi con la gente.
Non è il caso di richiamare l’abusata – e sempre sbagliata – citazione della signora del giallo su indizi e coincidenze ma quel che certo è che la vittoria di Juan Martín del Potro su Novak Djokovic è inaspettata solo per chi ha seguito le ultime vicissitudini tennistiche con qualche distrazione. Il dritto aiutato dal nastro che ha chiuso, forse per sempre, l’esperienza olimpica di Novak, non ha fatto altro che certificare quanto da mesi era stato nascosto dai risultati: Novak Djokovic, oltrepassato il fatidico compleanno dei 29, come tanti altri prima di lui ha cominciato la sua parabola discendente.
In futuro la vittoria del Roland Garros potrà sembrare il canto del cigno del giocatore che più di tutti ha incarnato l’idea di imbattibilità, perché davvero Nole è stato il più avvilente tra i numeri uno. Non sembrava facesse mai niente di eccezionale ma costringeva sempre l’avversario a giocare fuori dalla sua comfort zone e, se mai servisse qualcosa in più – un recupero prodigioso, un rovescio lungolinea a chiudere, un dritto incrociato imprendibile – lo faceva con una naturalezza che sembrava quasi sovrannaturale. La partita che vedevi ti sembrava brutta poi guardavi il risultato e il vincitore era sempre lui. Di più, già dopo il primo game sapevi che avrebbe vinto Djokovic.
Eppure, questa terribile impenetrabilità non aveva mancato di mostrare qualche crepa. Ma mentre quelle del 2015 erano state sepolte da un mare di successi, persino imbarazzanti nella parte finale della stagione, quelle del 2016 sono diventate più larghe e più continue. Tanto da far sembrare normale quello che normale non poteva essere e non era: il giocare – senza rischiare certo – molto male la maggior parte delle partite. La partita contro Simon all’Australian Open non era un caso isolato. Nole aveva rischiato addirittura contro Seppi di prolungare il match e persino giovanotti di belle speranze lo trascinavano nella zona pericolosa del tiebreak.
Ma la capacità di ridiventare Robonole nella fase finale del torneo nascondeva, faceva dimenticare, come sin lì si era arrivati, e cioè male. Ma fino a quando vinci, perché mai preoccuparsi? Perché pensare che perdere un set contro Bjorn Fratangelo possa essere un problema se poi a Raonic concedi due soli game in finale? Perché ritenere un problema faticare con Thiem e Goffin se poi Nishikori ti regalava l’ennesimo mille senza neanche farti sforzare troppo?
Djokovic si è accontentato di realizzare il suo sogno, ancora giocando male, a Parigi, dove troppe volte era stato sfortunato per non meritarsi una vittoria che quell’anima buona di Murray non si è sentito di negargli. Ma tradito dal fatto che qualsiasi cosa era sufficiente, o più semplicemente stanco della dedizione che il tennis richiede, Novak ha continuato a veleggiare, con una velocità alta, certo, ma senza accorgersi che pian piano diminuiva. Djokovic si è affidato sempre di più alla padronanza del suo gioco e a quanto credeva di conoscere l’avversario di fronte, che prima o poi, ne era certo, in ogni caso gli avrebbe regalato qualcosa: bastava non sbagliare.
Non sappiamo, ma lo sapremo presto, se ha dimenticato o se si è soltanto disinteressato di una cosa essenziale per chi gioca a tennis: la tua testa dev’essere sulla partita e nient’altro. Soprattutto mentre il tempo passa e, per quanto tu sia in perfetta forma e salute, il peso di infinite partite si accumula nelle gambe e nelle braccia. E diventa più complicato anche questo accendere e spegnere la tensione, provare ad aumentare concentrazione nei punti importanti, ché tanto ci arrivi sempre con un discreto vantaggio.
A Wimbledon non stava andando diversamente: due partite vinte giocando maluccio contro due già contenti di essere lì, sul centrale. E poi la terza partita contro uno che non chiedeva altro che comportarsi come i due prima di lui. Djokovic ha accolto con fastidio la sconfitta e dopo qualche settimana di riposo a Toronto è ricominciato l’andazzo. Così così con Muller, il regalo di Berdych, la vittoria contro Nishikori.
Forse le lacrime versate a Rio, dopo che mille volte quel nastro aveva fermato dall’altra parte il colpo dell’avversario di turno potrebbero essere la presa di consapevolezza che così non si può continuare, che bisogna fare qualcosa. In questa chiave si potrebbe leggere la ventilata ipotesi di rinuncia a Cincinnati, uno dei pochi tornei che il bulimico Novak non ha mai vinto. Ma è tutto rischioso, perché il riposo, se è troppo lungo, necessita di un periodo di riadattamento al campo, che non sempre – leggasi: quasi mai – è andato a buon fine. Gli US Open a questo punto diventano un torneo di tremenda importanza, perché se Nole dovesse continuare così il 2017 sarà l’anno di un nuovo numero 1 del mondo.
Del resto, il tempo passa per tutti, persino per Robonole.