Abbiamo problemi con la gente.
Estate, tempo di flirt, storie che finiscono e altre che nascono. E pazienza se questa volta si tratta di tennisti che si litigano gli allenatori, sai che noia.
Riassunto minimo per i vacanzieri: arriva la notizia che Marin Cilic e Goran Ivanisevic interrompono la loro collaborazione, giusto dopo che Cilic aveva perso al quinto set contro Federer, riapparendo da Medjugore dopo la finale degli US Open 2014. Ignoti i motivi. Poi, notizia di domenica 7 agosto, Cilic dichiara a Rio de Janeiro che è stato lui a lasciare Goran. Motivo? Non lo dice. E si arriva all’8 agosto, quando Tomas Berdych mette grigio su bianco, questi i colori della jpg pubblicata su Twitter, che Goran Ivanisevic si aggiungerà al suo team, dopo che già nei mesi scorsi si stava facendo aiutare da Luka Kutanjac.
https://twitter.com/tomasberdych/status/762648813848985601
Della carriera di Berdych, che compirà 31 anni a settembre e che non ha mai vinto un torneo maggiore, a differenza di Cilic, per esempio, si è scritto di tutto e di più. Batte i più deboli e perde con i più forti. E neanche dà l’impressione di lottare con i migliori: arriva alle finali e perde senza mai rendere tale la partita. Ma non è il primo e non sarà l’unico tennista di questo genere. Quello che colpisce, e che forse rimarrà il nostro giudizio finale il giorno dopo che avrà smesso di giocare, è che non hai mai fatto nulla di speciale per uscire dall’aurea mediocritas tennistica che ne sta contraddistinguendo la carriera.
Definire mediocre, incolore, la carriera di un tennista capace di stare stabilmente nella top 10 nell’epoca dei Nadal, Federer, Djokovic e Murray, è un concetto eretico. O forse no, visto che sono anni che si scrive delle potenzialità di questo campione, il tennista da prendere come modello di gesti tecnici e bla bla bla. Salvo poi criticarlo quando, puntualmente, nelle fasi finali dei tornei non arrivava mai a compiere l’agognato salto di qualità. Copiosi, arrivavano i quarti di finale, le semifinali, talvolta anche le finali, addirittura una a Wimbledon nel 2010. E poi per il resto, Berdych si è messo copiare chi gli passava avanti nelle scelte, Murray prima, Cilic poi, i colleghi che, a differenza sua, dopo anni di insuccessi sono riusciti a sbloccarsi e a diventare campioni Slam.
Dapprima ha provato a copiare Murray, tentando di convincere Ivan Lendl a fargli da allenatore. Ma Lendl, che non è stupido, ha preferito giocare a golf. E l’avrà ricevuto, quando si sono incontrati, giusto per educazione. E intanto Berdych vinceva contro i più deboli e perdeva contro i più forti. Sceglieva, gennaio 2015, Daniel Vallverdu come coach. Sì, quello che Panatta prendeva in giro nelle sue telecronache.
Dichiarava Berdych subito dopo la separazione:
I miei risultati ultimamente non è sono quelli che mi aspettavo. Non sono neanche più un giocatore di tennis a inizio carriera, quindi devo agire in fretta quando sento che ho bisogno di un cambiamento.
Vallverdu aveva lasciato il team di Murray.
Invece di trovare una qualche soluzione innovativa come tanti altri suoi colleghi, Raonic con McEnroe, Federer con Edberg, lo stesso Murray con Lendl, o anche lo sciagurato Wawrinka con Krajicek, Berdych sceglieva di copiare gli altri. Come Google+, quando si cercò di fare un social network tipo Facebook, con i risultati che sapete. Oppure, più recentemente, e sempre nello stesso paradigma tecnologico, come Instagram, che non perdere il pubblico dei teen si è ritrovato a copiare pari pari la parte “storie” di Snapchat – con proprio Berdych e la moglie Satorova subito pronti a regalarci altri momenti inutili delle loro giornate fricchettone.
Proprio non ce la fa a essere originale, a diventare un campione. Non vorremmo che alla fine della sua onorevole carriera, ci ricorderemo di Berdych solo per essere stato l’unico tennista sotto contratto con H&M, quando alternava completini a righe pro daltonia a mise floreali. Ma anche qui, nell’unica sua “botta di vita” sul circuito, dopo poco ha preferito tornare nella mediocrità, tornando all’Adidas come tanti altri.