Abbiamo problemi con la gente.
Gli accessi dei siti internet specializzati sono crollati al sabato, perché va bene l’equal pay e via dicendo, ma se non gioca Federer si tratta di un altro sport anche in tv. Alla domenica va un po’ meglio, forse anche perché il Royal Box, il volgare parterre del calcio, è al completo. I reali schierano il solito duca di Kent, più Middleton e marito, il tennis risponde con Bjorn Borg, elegante e abbronzato come un notaio, più Edberg e Becker, seduti vicino se non ci fosse la svedese Annette, ex di Wilander e ora consorte di Edberg, a separarli. Le istituzioni con poteri veri sono rappresentate dal nuovo sindaco di Londra, Sadiq Khan, che non perde tempo a godersi la sua prima finale di Wimbledon, e pure da David Cameron, che invece è alla sua ultima finale da premier.
Insomma, ci sono un po’ tutti anche perché la giornata ha i toni della parata. Andy Murray non può deludere lo UK, così come gli è stato fatto notare in conferenza stampa dopo le semifinali (“It’s not so bad here”, ha risposto alla domanda della giornalista che lo individuava come l’ultima speranza della nazione oramai allo sbando), e anche gli sguardi del pubblico sono tranquilli, rilassati, come quando sei invitato a un matrimonio ma non sei tu a doverti sposare: puoi fare baldoria perché tanto sai che sarà una festa.
E quindi applausi di rito quando Murray fa il break al settimo gioco, salendo 4 a 3: la legge del passante, giocato basso e in mezzo le gambe del lungagnone Milos, non perdona. Non a caso, nell’angolo di Murray c’è Ivan Lendl, lo specialista del passante anni ’80, quando faceva giocare la prima volée sempre sotto il livello della rete, per poi giocare un colpo più semplice (chiedere a McEnroe). Niente traiettorie dritte quindi per Murray quando Milos è a rete: il canadese chiuderebbe facilmente, visto che gioca le volée con il naso sul net, tanto scavalcarlo in altezza è proibitivo anche per uno bravo nel lob come Andy.
Ai cambi di campo il britannico legge un foglietto dove c’è scritta la tattica: non far colpire Milos da fermo a fondo campo; rispondergli sempre nei piedi se viene a rete o costringendolo a spostarsi in uscita dal servizio; fargli giocare le volée sotto il livello della rete; mantenere una percentuale altra di prime palle per non farsi attaccare sulla seconda. L’avrà scritto il professor Lendl, forse. L’allievo Murray esegue il compitino alla perfezione e, dopo quaranta minuti, chiude un ordinario 6-4 giocato con il pathos di un primo turno di un ATP250.
Riccardo Piatti, il coach di Milos Raonic assunto a tempo indeterminato prima del contratto a progetto per McEnroe, è arrivato dall’Italia di fretta, senza neanche farsi la barba di qualche giorno, e siede in tribuna vestito “predominantly white”, con la felpa di chi è abituato a stare sul campo più che in cabina di commento. Dentro il box ESPN, tivù americana, c’è McEnroe a fare il saputello su Raonic col doppio stipendio, per buona pace del conflitto d’interessi. In campo, intanto, Milos non fa aces e neanche tanti punti diretti con il servizio. Murray gli prende le misure agevolmente e risponde al robusto servizio del canadese come a dirgli: “Puoi tirare anche a 180 miglie orarie, per me non fa differenza”. Il canadese con i capelli scolpiti nel peltro concede palle break nel primo, nel settimo e nel nono gioco del secondo set: Murray se le gioca male e quindi la contesa si risolve al tiebreak. Anche qui, basta fare il compitino allo scozzese per chiudere 7-3, esultando verso il suo angolo, dove ci sono i soliti esagitati in piedi: preparatore fisico, mamma, moglie, amici, e il solo Ivan Lendl seduto, con la solita faccia mono espressione, quella dell’afflizione per la vita. Murray ha occhi solo per lui.
Si riparte nel terzo, e forse Raonic non sa che solo il francese Borotra riuscì a rimontare uno svantaggio di due set in finale a Wimbledon, roba da anni ’20. Però, dopo tre ore di gioco, sul 2 a 1 Raonic, arrivano le prime due palle break della partita per il canadese. Nessuno è sorpreso quando Murray esce indenne da questo turno al servizio complicato, il primo del match, lasciando che il set segua la scia dei servizi, sempre avari di emozioni e punti spettacolari. E quindi nuovo tiebreak. Murray va subito avanti, 5 a 0, concede un rovescio in rete, ma poi chiude 7-2 alzando le braccia e lasciando la racchetta a terra. Lendl, finalmente, si alza e sorride. Con questa vittoria pareggia le due finali perse a Wimbledon, e pazienza se a vincere è stato l’allievo e non il maestro.
Assente Nadal (chi?), eliminato Djokovic, la sua copia migliore, e fuori anche Federer, quello che ha il grimaldello per “scardinare” il suo gioco, Andy Murray vince il suo secondo Wimbledon facendo l’ordinaria amministrazione. Si tratta del suo terzo titolo Slam, ma le finali perse (e sempre contro quelli di cui sopra) sono ancora tante, otto, specie rispetto alle vittorie. In conferenza stampa gli nomineranno Fred Perry, Lendl, i record, la Brexit e via dicendo, ma lui penserà solo che finalmente è riuscito a vincere una finale Slam. E pazienza se c’era Raonic dall’altra parte.