Abbiamo problemi con la gente.
Quando Serena Williams vinse Wimbledon un anno fa, tutti si aspettavano che a New York si sarebbe celebrato un giorno storico: la chiusura del Calendar Grand Slam nello stesso giorno in cui una tennista riusciva finalmente ad eguagliare il record di Steffi Graf, capace di vincere 22 Slam in carriera. Invece poi ci si è messa in mezzo Roberta Vinci. Quella sconfitta, anche se ha chiuso la stagione di Serena, non ha completamente disorientato una tennista che è sempre stata incline a gli alti e bassi emotivi, ma ha reso molto più labile la leadership di Serena. Prima di questo Wimbledon, Serena era già numero 1 della Race ma la sua sconfitta in entrambe le finali dei primi due Slam dell’anno sembravano indicare che il vento stava lentamente cambiando direzione. Ed infatti ieri, prima di affrontare Angelique Kerber, non erano in molti ad essere totalmente sicuri della sua vittoria. Serena ha quasi 35 anni, del resto, e può capitare una giornata storta. O meglio, può capitare un momento di appanamento che rimette in corsa l’avversario, come successo per esempio a Federer nella semifinale con Raonic.
Invece la Serena di queste due settimane di Championships, è sembrata la più rilassata e convinta dell’anno. Quando lo spettro del Grande Slam ha cominciato a insinuarsi nella mente della statunitense, cioè dopo la vittoria del Roland Garros, Serena non è più stata la stessa. Ogni vittoria, anche la più semplice, portava con sé un carico di drammaticità che si accumulava alla tensione della partita precedente. Le urla, sempre più rabbiose, non servivano ad alleggerire il fardello della numero 1 del mondo e alla fine i nervi hanno chiesto il conto. È capitato in semifinale agli US Open, contro un’avversaria che ha tutto per renderti la vita difficile e che ha cominciato a crederci quando sembrava che tutto fosse perduto: Roberta Vinci. L’incredibile prestazione della tarantina, unita al nervosismo crescente di Serena hanno finito per avere un effetto letale. E i risultati di quella partita si sono trascinati per almeno un anno. Chissà, forse si trascineranno ancora.
Il paradosso di quella partita è che la Serena Williams di quest’anno è sembrata più sollevata nel momento della sconfitta che in quello della vittoria. Non è difficile capirne il perché: alleggerita dal peso della vittoria a tutti i costi, Serena si è improvvisamente ricordata di essere umana e fallibile. Le è capitato tante altre volte in carriera, ma gli ultimi tempi le avevano fatto scordare che lei non era fatta per dominare a lungo. Prima di compiere trent’anni Serena era rimasta in vetta alla classifica del ranking per 123 settimane. Da quando si è ripresa la prima posizione mondiale, quattro anni dopo, non c’è più scesa: 177 settimane consecutive, molto più di quanto abbia ottenuto in oltre dieci anni di professionismo.
Sembra quasi irrispettoso dire che Serena Williams non sia fatta per dominare a lungo, dato che probabilmente la ricorderemo come la tennista più vincente di tutti i tempi. Eppure la sua carriera è sempre andata così: dopo il primo Serena Slam, quello dei quattro Slam consecutivi tra 2002 e 2003, Serena perse in semifinale al Roland Garros e rivinse Wimbledon, ma poi entrò in una delle fasi più difficili della sua carriera. Tra gli US Open 2003 e Wimbledon 2008, in quella che sarebbe potuta essere la fase più vincente della sua carriera (è coetanea di Federer, per dire) vinse 3 Slam su 20, saltandone ben 5 e perdendo spesso e volentieri prima delle fasi finali. Poi vinse altri cinque Slam, ma tra Wimbledon 2010 e Wimbledon 2012 non vinse nemmeno uno Slam, restando fuori a lungo per una serie di infortuni.
Questo periodo di lunga dominazione, insomma, è un dato abbastanza anomalo. Tra qualche anno nessuno se ne ricorderà, ma chi avrebbe immaginato a fine 2010 che Serena sarebbe riuscita a vincere negli anni successivi poco meno degli stessi Slam che aveva vinto fino ad allora? È quasi inutile sottolineare che l’arrivo di Patrick Mouratoglu è stato ancora più decisivo di quello di Paul Annacone per Roger Federer. Annacone cominciò a lavorare con Federer con un chiaro obiettivo in testa: prendere più rischi, assecondare un fisico che non aveva più la brillantezza dei bei tempi e tirar fuori il massimo dall’immenso patrimonio tecnico dello svizzero. Ci riuscì alla grande, anche se Federer vinse un solo Slam durante il suo periodo con Annacone. Ma tornare numero 1 del mondo e dimostrare a oltre 30 anni di poter lottare ad armi pari con Djokovic, Murray e Nadal fu uno dei risultati più clamorosi raggiunti da Federer.
Con le dovute proporzioni – ché il circuito WTA ha certamente un livello diverso da quello ATP – Patrick Mouratoglu è riuscito a fare le stesse cose con Serena Williams. Come il suo coetaneo svizzero, Serena ha un bagaglio tecnico decisamente superiore alla concorrenza ma spesso e volentieri si è affidata all’immenso gap di potenza che aveva nei confronti di buona parte delle sue avversarie. Mouratoglu ha cercato di tirar fuori una Serena diversa da quella a cui eravamo abituati. La statunitense è diventata ipercompetitiva su ogni superficie, anche sulla terra battuta, vincendo il Roland Garros a distanza di ben undici anni. Ma Mouratoglu ha convinto anche Serena a guardare oltre sé stessa, tenendo conto del valore delle avversarie e adottando le contromisure adatte alla specificità di chi si stava affrontando. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e anche se non ha ottenuto il Calendar Grand Slam, e probabilmente non lo otterrà mai, i nove Slam che ha ottenuto dopo i trent’anni sono qualcosa di irripetibile.
Quest’anno sembrava però che tutto quanto era stato costruito negli anni precedenti fosse arrivato al punto di crollare. Nelle sconfitte con Kerber a Melbourne e con Muguruza a Parigi, Serena non ha mostrato segni di rabbia. Ha fatto buon viso a cattivo gioco, una specialità a cui i campioni come lei sono ben poco propensi. Addirittura, al Roland Garros è stata sconfitta da un’avversaria che gioca esattamente come lei, una novità assoluta. La chiave del suo ritorno, l’ennesimo, è stata la pazienza. Lo si è visto lungo tutto il corso del torneo e lo si è visto in maniera inequivocabile nel corso della finale contro Angelique Kerber: era una rivincita, certo, e quindi Serena sapeva bene di trovarsi di fronte un’avversaria estremamente convinta nei propri mezzi. Ma le due sconfitte di quest’anno hanno fatto capire a Serena che la sua presenza non basta più ad intimorire le sue avversarie.
Kerber ieri ha giocato una partita molto positiva, tenendo i suoi turni di servizio con una certa sicurezza. Serena, dal canto suo, ci ha messo un po’ ad abituarsi a quella variabile che indebolisce il suo punto di forza principale, il servizio. Molto spesso, poi, colpiva il rovescio in posizione sbagliata, con il risultato di mandare di là dei colpi sbilenchi e deboli. Ma quando Serena ha trovato la pazienza di gestire il vento e di non farsi travolgere dal nervosismo, la sua superiorità è emersa in maniera travolgente. Per quasi un set e mezzo, Kerber non ha avuto palle break. Quando ne ha ottenuta una, Serena ha messo a segno due ace e ha chiuso il game senza battere ciglio. Quando alla fine ha breakkato anche nel secondo set, la statunitense non ha mostrato il minimo segno di nervosismo.
Quando infine è andata a servire per il match, Serena ha messo in campo tutta la sua pazienza. Ha tenuto il servizio a zero, naturalmente, e quando alla fine si è lasciata andare a terra, quasi incredula, si è lasciata alle spalle dodici mesi di dubbi e insicurezze. Sembra passato molto più di un anno da quella vittoria con Garbiñe Muguruza, quando il record di Steffi Graf sembrava così vicino. Invece si è trattato di soli dodici mesi, un’inezia per una come lei: Serena ha avuto la pazienza di ricordare a sé stessa che i tempi bui della sua carriera non le hanno mai impedito di tornare a ruggire.